I lavori di Gipi che ho amato di più, per l’equilibrio raggiunto tra testo e immagine, sono la LMVDM ed S.
Tavole e vignette in cui la lotta personalmente ingaggiata dall’autore con la sua creatività si gioca sulle storie, sui testi e sui disegni, pariteticamente. Le pause, il ritmo, il colore, le parole, le virgole, persino le cancellature, ogni singolo elemento, seppure proveniente da percorsi diversi, che portano tutti verso la ricerca della propria voce come artista, sono dosate, più o meno istintivamente.
In S., come in LMVDM, siamo nella dimensione autobiografica, quella più intima, più ostica, più appagante di questo straordinario autore. Lo stesso vale per Momenti straordinari con applausi finti, in cui Gipi ci racconta la perdita della madre. “Partivo da una base mia di gelo interiore che mi ha trasformato in una specie di serial killer della narrazione. Io ho costruito dei momenti penso emozionanti, però rimanendo gelido (…). In S. il ragionamento di base era ‘ho tutto questo amore in corpo basta lasciarlo fruire’”, ci racconta l’autore nel corso di una chiacchierata, all’ombra della Nuvola, in occasione dell’ultima edizione di Più Libri Più Liberi a Roma.
In S. Gipi elabora il lutto per la perdita del padre: dosa gli acquerelli in una narrazione aperta e circolare, emotiva e fluida, fatta del lessico del ricordo e della sintassi dell’inconscio. Eppure il messaggio è cristallino. “Io non ho mai corretto una cosa in S, non ho mai riscritto una frase. Non ho mai studiato una frase: è tutto di getto”, spiega lo stesso autore. “Questo (Momenti straordinari con applausi finti, ndr) è tutto il contrario. Qui io partivo da una base mia di gelo interiore che mi ha trasformato in una specie di serial killer della narrazione. Io ho costruito dei momenti penso emozionanti, però rimanendo gelido. Per quello poi ne sono uscito a pezzi. Non lo avevo mai fatto prima. Il mio lavoro era tutto autenticità, come dire, istinto. Invece qui è tutto testa. Questo l’ho applicato alla scrittura. L’ho applicato al disegno. L’ho applicato al montaggio. All’immagine e al testo. È un lavoro chirurgico”, specifica l’autore.
Sul piano del disegno, dai bianchi e neri della Terra dei figli agli acquerelli di S., tutti gli strumenti scendono in campo per srotolare la storia sui diversi piani narrativi che raccontano questa perdita. Eppure questa chirurgica razionalità non semplifica la lettura. “Tutto il libro fino almeno a pagina 80 è una roba per me spaventosa. (…) Mi sono detto non voglio essere sentimentale mai. Se anche devo generare un’emozione va generata con altri metodi che andranno costruiti con cura”.
Gipi usa sé stesso pesantemente in modo autobiografico in tanti libri; un modo di chiedere al lettore di volergli bene. “Quando io ti do un’autobiografia, io ti domando automaticamente, non di voler bene ai personaggi, ma di voler bene a me. Ed è un patto che il lettore fa subito all’inizio (…).”, racconta l’autore stesso in una lunga conversazione con Raimo a Grande come una città.
Posta in questi termini, la storia dell’autobiografico, sembra essere un po’ una ‘paraculata’. “Lavorare in un’autobiografia è una richiesta di affetto sulla propria persona e non sul personaggio in sé”, aggiunge l’autore nella conversazione con Raimo. In LMVDM lo avevamo visto mettere in vignette la mossa del cane debole: “Fai una narrazione in cui ti metti nella massima condizione di fragilità possibile e a quel punto giusto le merde ti attaccheranno”. È difficilissimo, impossibile, che il lettore ti ‘accanni’”.
Eppure il suo rapporto con il lettore va ben oltre, sembra una relazione di reciproca fragilità. “Da quando lavoro in completa libertà penso solo ad essere comprensibile nel modo se possibile più rischioso possibile per me. Mi piace l’idea di raccontare robe complesse al limite del non capirci una sega per dirlo in pisano, ma che comunque invece lo capisci”, ci dice Gipi. “Tengo a mente che nessuno mi ama abbastanza da leggersi una roba mia dove ad esempio si faccia fatica. Oppure se c’è da fare fatica è perché io ho deciso che si deve far fatica”.
Io ho costruito dei momenti penso emozionanti, però rimanendo gelido. Per quello poi ne sono uscito a pezzi.
In aiuto del lettore ci sono il ritmo, le pause, la partizione della tavola, l’alternarsi di tecniche pittoriche diverse e di piani narrativi apparentemente disgiunti: lo ‘spazio’ che Gipi lascia tra una vignetta e l’altra è talmente ampio che il lettore quasi sempre può e riesce a scrivere anche un pezzo della sua storia. Anche in Momenti straordinari con applausi finti… dopo le prime ottanta pagine di granito, lo spazio per il lettore c’è. Non è una lettura facile, né uno svago: è guardare il vuoto in cima ad un precipizio.
Seduti accanto a lui, Gipi ci dà il permesso di sapere come sta, di guardarlo pisciare, di sentirlo sragionare al telefono con la moglie, di fare i conti con la sua infertilità, di fare i conti con sua madre morente, a patto di faticare un po’. Ma nonostante la narrazione serratissima, il continuo slittamento da un piano narrativo all’altro, la folla di stili, Gipi ci lascia, tra le tavole, tra le singole vignette, tra le parole delle isole di libertà, in cui possiamo sentire – con la giusta distanza – l’odore del suo tormento e la freddezza della sua sofferenza, la caducità dell’esistenza, riconoscendo sentimenti familiari che prima o poi sono appartenuti o potranno appartenere a ciascuno di noi.
E a proposito di affacci pericolosi, alcune delle storie di Gipi – sicuramente LMVDM – ruotano intorno al nucleo oscuro di un passato tossico nella provincia toscana, senza però illuminarlo mai completamente. Pensando alle sostanze, l’eroina in particolare è stata una cosa gigantesca, in parte lo è ancora (e di nuovo con prepotenza), e a illustri esempi che ho molto amato – al Pompeo di Pazienza che ha parlato di eroina in chiave totalmente individuale, ad Amore tossico di Caligari, in cui lo sguardo è psichedelico, non apologetico, ma iconografico –, ho chiesto a Gipi se ci fosse lo spazio per una riflessione su questo nei suoi prossimi progetti.
Penso sempre che le cose le dovrebbe raccontare chi è vicino all’oggetto del racconto.
Per capirci, io sogno una specie de Il mondo dei vinti di Revelli, disegnato da Gipi che si affacci proprio sul nucleo oscuro di un passato tossico nella provincia toscana. “Sicuramente lo è stato, soprattutto in passato quando quel periodo li era più vicino nella memoria. Ora non potrei approcciarlo con realismo almeno se andassi a pescare nei ricordi miei. Perché quei ricordi sono troppo lontani e non c’è più nulla di vero, sono tutti modificati dalla nostalgia della gioventù. Sarebbe un altro discorso se io entrassi in contatto con una realtà di quel tipo li adesso e la raccontassi”, mi dice. “Penso sempre che le cose le dovrebbe raccontare chi è vicino all’oggetto del racconto. Penso che la vicinanza al sangue debba essere ancora fresca, abbastanza corta di modo da sentire ancora l’odore. Altrimenti sei un borghese che vive una bella casa e che si pasce del suo ricordo di quando era un delinquente. Nulla di peggio”.
Per Gipi non è una questione etica è una questione artistica. Per me è amore incondizionato.
È possibile leggere la trascrizione integrale di questa intervista, realizzata in occasione Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più libri più liberi (che si è svolta a Roma, dal 4 all’8 dicembre 2019) su Mangialibri.com.