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Photo by Merlijn Hoek / CC BY-NC-ND

Ripensare la FOMO, cambiandole una consonante


Avete presente tutte quelle cose che, in generale, prima ci davano piacere? Vi ricordate quando “staccare la spina” voleva dire mettersi a leggere un libro, prepararsi una tisana, cucinare una torta, andare al cinema, telefonare a un amico?

Per alcuni di noi, e da qualche anno ormai, molte di queste attività non sono più accompagnate dal puro e sincero piacere che scaturisce dalla consapevolezza di stare facendo proprio quello che desideravamo fare. Ma da una sottile ansia. Una specie di prurito emotivo. Un pensiero secondario disturbante che non ci lascia godere “quel” momento e che ci porta ad allungare la mano verso il cellulare per vedere se sono arrivate notifiche e aprire uno qualsiasi dei social network a cui la nostra fascia di età e i nostri interessi ci consacrano. Può essere TikTok, Instagram, Facebook o Twitter. Dobbiamo controllare se, per caso, nei 5 minuti in cui ci siamo “distratti” non sia successo qualcosa di importante che rischiamo di perderci e che ci potrebbe letteralmente “tagliare fuori”. Si chiama “Fear Of Missing Out”, secondo fonti recenti affligge più della metà degli utenti dei social network (percentuali che crescono se si tratta dei più giovani) e forse ne avrete sentito già parlare con il suo acronimo, FOMO.

Il primo a utilizzare l’espressione Fear of Missing Out fu Patrick McGinnis, studente della Harvard Business School, che nel 2004, in un editoriale per la rivista studentesca Harbus, descrisse appunto come le due forze che guidavano i programmi sociali degli studenti fossero la Fear Of Missing Out e la Fear Of Better Option (la paura che ci sia sempre un’opzione migliore di quella che si ha davanti e alla quale, per questo motivo, si rinuncia). Per una decina anni di FOMO (e di McGinnis) non si è più sentito parlare. Fino al 2013 circa, quando il ricercatore Andrew Przybylski pubblicò un articolo che ancora adesso è considerato una lettura imprescindibile per chi voglia documentarsi sulla FOMO.

Ci viene detto costantemente che potremmo avere qualcosa di più, qualcosa di meglio.

La FOMO è un’ansia sociale ubiquitaria e dai contorni molto sfumati: se per gli adolescenti la paura è quella di essere davvero “tagliati fuori” da esperienze che i loro pari possono star facendo senza di loro, per un ventenne-trentenne la FOMO può assomigliare a una perenne sensazione di non aver fatto la scelta giusta perché c’è sempre qualcuno online che sembra si stia divertendo più di loro. Invece, per un quarantenne-cinquantenne può semplicemente tradursi nel controllare più volte al giorno il cellulare per la paura di perdersi qualche interazione digitale gratificante (se vi state chiedendo cosa si intende per “più volte”, la Apple nel 2013 ha rilasciato dei dati su quante volte in un giorno gli utenti sbloccano il cellulare: in media 80 volte al giorno, 7 volte l’ora).

Ça va sans dire, alti livelli di FOMO sono direttamente correlati a bassi livelli di autostima, conclude Przybylski. “I nostri risultati mostrano che le persone con bassi livelli di soddisfazione dei bisogni fondamentali di competenza, autonomia e capacità di relazionarsi tendono verso livelli più alti di Fear of missing out, tanto quanto quelli con livelli bassi di umore generale e soddisfazione complessiva della propria vita”, spiega.

Potrebbe accadere quindi che quello che avevate tanto desiderato fare “impallidisca” di fronte ai colori sgargianti di un riad di Marrakech condivisi da qualcuno nel momento esatto in cui avete effettuato il check in per volare a Londra (dove ovviamente sta piovendo). “Sicuro di aver fatto la scelta giusta?

Potrebbe, ma non è affatto detto che accada. Perché è proprio a partire da quel tic che ci porta a controllare costantemente il cellulare che arriva la svolta. Al posto della “paura” di essere tagliati fuori, potreste fare l’esperienza della gioia di perdervi qualcosa.

Sto facendo abbastanza per vivere la mia vita al meglio?

È il punto di vista di Svend Brinkmann, professore di Psicologia alla Aalborg University e autore di “The Joy of Missing Out”. Secondo Brinkmann, proprio dall’accettazione dei limiti della propria vita che scaturirebbe una maggiore sensazione di felicità, consapevolezza, soddisfazione e appagamento.

Ci viene detto costantemente che potremmo avere qualcosa di più, qualcosa di meglio”, racconta alla BBC, e sfuggire a questa pressione, alla domanda incessante “Sto facendo abbastanza per vivere la mia vita al meglio?”, è diventato non solo necessario, ma incredibilmente positivo. Ci vuole impegno per farlo, per sottrarsi volontariamente al bombardamento di esperienze “positive” che il web ci promette.

Ma non è certo un approccio nuovo per l’occidente (ha cominciato Aristotele con la ricerca di una “via di mezzo”, di un equilibrio tra il fare troppo e il fare troppo poco). Da questo punto di vista, dire alle nuove generazioni che “tutto è possibile, basta fare le proprie scelte”, è sbagliato. Innanzi tutto perché non è vero che tutto è possibile, come esseri umani abbiamo dei limiti. Ma ancora di più, perché sono proprio questi limiti che ci consentono di definirci umani, conclude Brinkmann.

E comunque, per ribadire che la FOMO può portare a cose positive: ve lo ricordate McGinnis, lo studente della Harvard Business School? Ecco.

Qui il video in cui Brinkmann spiega The Joy of Missing Out.