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Photo by Garry Knight / CC BY

Fast fashion: ci servono davvero ottanta miliardi di vestiti all’anno?


Nel mese di settembre, fashion week è l’espressione che vi sarà capitato di sentire almeno una volta. New York, Londra, Milano, Parigi: per ciascuna di queste città (esattamente in questo ordine), e senza mai sovrapporsi, una settimana diversa del mese viene interamente dedicata alle presentazioni delle collezioni prêt-à-porter Primavera/Estate dei principali designer.

Prima di storcere il naso perché “la moda non vi interessa”, leggete i numeri.  Quello della moda è il secondo settore manufatturiero in Italia (il primo è l’industria metallurgica) con 78 miliardi di fatturato aggregato (dati Ufficio Studi Mediobanca) e 82 mila imprese attive. E ha anche tutta un’altra serie di primati definitivamente non lusinghieri: dopo l’industria del petrolio, quella tessile è l’industria più inquinante per l’ambiente, a partire dalla quantità di pesticidi utilizzati per le piantagioni di cotone (il 18 per cento  di quelli utilizzati in tutto il mondo), alle sostanze chimiche utilizzate per trattare i tessuti e poi ritingerli, alla impossibilità di smaltire gli abiti in fibre non naturali in modo ecologico, alla quantità di acqua necessaria per produrre un capo di cotone (3000 litri per una camicia, 7000 se parliamo di jeans).

E come negli altri comparti industriali che si rispettino, anche nella moda il tema della sostenibilità ha cominciato a suscitare una serie di prese di posizione e movimenti.

Era il 2013 e il Rana Plaza, crollando, seppelliva 1.129 persone: il documentario fino ad oggi più conosciuto sull’argomento “fast fashion” (The True Cost) partiva proprio da lì e ci spiegava come quella che era stata presentata come una “win win situation” (la popolazione occidentale poteva acquistare abbigliamento più economico, e quella dei paesi in via di sviluppo poteva lavorare e uscire da una condizione di povertà estrema) si era trasformata in uno dei casi di sfruttamento di manodopera più spietati della storia. La concorrenza tra i brand prevede infatti costi di produzione sempre inferiori per poter essere sempre più competitivi, imponendo alle aziende orientali contratti con condizioni economiche e di lavoro spaventose.

Dana Thomas, autrice di “Fashionopolis: The Price of Fast Fashion and the Future of Clothes”, in un’intervista con Hari Sreenivasan per PBS NewsHour ci aiuta a capire cos’è e dove sta andando la “fast fashion” e soprattutto se c’è una via d’uscita.È l’abbigliamento realizzato in grandi quantità e alla velocità della luce venduto a prezzi stracciati in migliaia di negozi in tutto il mondo. Copiano la moda dei top designer, e ne realizzano una versione economica. Hanno un modello di business incentrato sull’economia di scala ed è per questo che ci ritroviamo inondati di vestiti” (quanti? Ottanta miliardi all’anno).

Se qualcosa costa $ 19,99, la regola generale è che probabilmente la persona che l’ha fatta è stata pagata 19 centesimi.

Zara, Pull&Bear, Bershka (tutti e tre fanno parte del gruppo spagnolo Inditex di Amancio Ortega) H&M, Topshop, Mango, sono alcuni dei marchi più conosciuti di fast fashion, ed è stato proprio il marchio Zara a imporre che nei suoi negozi fossero presenti nuovi articoli ogni due settimane. Ciò vuol dire che due settimane è il tempo medio che intercorre tra la produzione di un capo e la sua apparizione tra gli scaffali del negozio, a un prezzo medio di 19,99 euro: non è difficile immaginare cosa ci sia dietro quelle due velocissime settimane e quel prezzo così competitivo. Manodopera a bassissimo costo e scarsa qualità delle materie utilizzate. E non possiamo realmente comprendere cosa si intende per manodopera a bassissimo costo fino a che non è Dana Thomas a fare i conti per noi: “Se qualcosa costa $ 19,99, la regola generale è che probabilmente la persona che l’ha fatta è stata pagata 19 centesimi”.

Questo tipo di rincorsa della manodopera sottopagata è parte integrante dell’industria dell’abbigliamento che si sposta alla ricerca del lavoro più economico dagli albori della rivoluzione industriale. “In questo momento il mercato più caldo è l’Etiopia, dove i lavoratori vengono pagati 24 dollari al mese per fabbricare i nostri vestiti”, ci aggiorna Dana Thomas.

In media un capo della fast fashion viene utilizzato solo 7 volte prima di essere gettato via.

Spostandoci sul versante dell’impatto ambientale di questo tipo di produzione i dati sono ugualmente impressionanti. Il 9 settembre è andata in onda una puntata di Presa Diretta dal suggestivo titolo “Panni sporchi”. Dalla ovvia (siamo pur sempre in Italia) gestione illegale della spazzatura tessile, alla quantità di fitofarmaci e metalli presenti sui tessuti che entrano in contatto diretto con la nostra pelle, dalla difficoltà di riciclare i tessuti (sia quelli naturali che quelli sintetici) alla quantità di microfibre plastiche che i tessuti sintetici rilasciano nel corso di un semplice ciclo di lavaggio in lavatrice.

Buone notizie?
Ce ne sono. Per lo smaltimento degli abiti usati, una filiera che ha dimostrato di funzionare è quella di Humana.

E per tornare alle fashion week, a Milano l’evento di chiusura sono stati i Green Carpet Fashion Awards, serata dedicata a premiare le aziende che si sono maggiormente impegnate a diminuire il loro impatto ambientale scegliendo metodi di produzione più sostenibili. Anche dal mondo della ricerca arrivano speranze : grazie a un batterio (lo Streptomyces coelicolor), potrebbero servire solo 200 ml di acqua per tingere 1 kg di tessuto di blu o rosa, e nella Silicon Valley la Modern Meadow è riuscita a produrre in laboratorio la prima “bio-pelle” (si chiama ZoaTM: cellule di lievito che si trasformano in collagene, che unito a delle fibre tessili dà vita ad un materiale che si presta ad essere conciato come la classica pelle di origine animale).

Parlando di sostenibilità dal lato del consumatore, non c’è che l’imbarazzo della scelta in tema di comportamenti virtuosi: comprare meno vestiti innanzi tutto, e se proprio dobbiamo, comprare abbigliamento di qualità (più riciclabile), che durerà di più (“in media un capo della fast fashion viene utilizzato solo 7 volte prima di essere gettato via”, ci ricorda Dana Thomas), oppure rivolgersi al mercato dell’usato, utilizzare cicli di lavaggio a basse temperature e con centrifughe meno forti (per limitare il rilascio di microplastiche da parte dei capi sintetici e per far durare di più i capi), e in generale, come dice Dana Thomas: “Essere più consapevole e attento riguardo a ciò che indossi”.