“Sono talmente concentrati a mandarsi a quel paese che nessuno parla più del paese”. Così dice Maurizio Crozza in un monologo sul bullismo nelle scuole, ricordando il video, ormai virale, dello studente di Lucca ripreso mentre inveisce contro il professore pretendendo un sei. Non certo un caso isolato di violenze. A Lecce, in un istituto tecnico, uno studente ha preso a calci e minacciato un compagno con una sedia. Il ragazzo era spesso preso di mira e la sua maglia usata come cancellino della lavagna.
Il bullismo è infatti una realtà radicata nel sistema scolastico italiano, e non viene affrontato in modo efficace. Per contrastarlo, l’università di Torku, in Finlandia, ha sviluppato il programma KiVa, adottato dal 90 per cento delle scuole finlandesi. Attraverso lezioni e attività annuali che lavorano sulle capacità socio-emozionali come i valori e l’importanza della responsabilità condivisa, il programma KiVa fa della prevenzione la chiave per il successo. Anche se non sempre basta perché troppo spesso ci si attiva quando esiste già una forte situazione di bullismo.
KiVa è presente anche al di fuori del paese scandinavo, a livello sia europeo sia internazionale. Il partner italiano è EbiCo, una cooperativa sociale spin-off dell’Università di Firenze, occupata nella prevenzione di bullismo e cyberbullismo. In Spagna, il programma è presente, invece, nell’istituto Escalae, dove la responsabile è Tiina Mäkelä che spiega a El Pais come capire se un bambino è vittima di bullismo a scuola e come intervenire.
Prima di tutto è necessario capire cosa si intende per bullismo. Per Tiina sono tre le caratteristiche principali che lo definiscono: “La prima è l’intenzionalità. Quando non si tratta di un incidente, ma qualcuno provoca volontariamente una sofferenza fisica, psicologica, sociale o verbale. In secondo luogo la ripetitività. Quando si tratta di episodi sistematici e non di casi isolati (…) In terzo luogo, quando c’è una differenza di potere. Quando si nota che qualcuno ha più potere di altri, sia per stato sociale, sia per forza fisica o popolarità all’interno del gruppo, e sta abusando di una o più persone con meno potere, quindi più vulnerabili”.
In presenza di questi tre elementi si può sospettare che si tratti di bullismo. Se non vi è differenza di potere invece, potrebbe trattarsi di conflitto. Il dialogo è il mezzo più utile per fare questa distinzione. I professori, prima ancora di prendere provvedimenti, devono investigare per capire di cosa di tratta. Devono parlare con la presunta vittima, cercando di capire la sua prospettiva, e con i protagonisti dell’abuso, individualmente o in gruppo, che abbiano partecipato direttamente o indirettamente.
“Il tema del gruppo è molto importante perché quando si ha un gruppo e una sospettata situazione di bullismo, all’interno del gruppo i ruoli sono distinti”, sottolinea Mäkelä.“Per esempio c’è sempre il pubblico, gli spettatori diretti che ridono o non denunciano. Senza pubblico un atto di bullismo non ha lo stesso effetto. Dall’altra parte ci sono gli esterni che vedono la situazione ma per paura, per vergogna non fanno nulla. Su questo dobbiamo lavorare perché questo gruppo si attivi per difendere la vittima. Più aumenta il numero di persone che si attivano contro il bullismo, più diminuiscono le probabilità che qualcuno ne soffra. Nei casi più gravi è molto importante coinvolgere gli adulti perché certe situazioni non possono essere risolte da minori. Non si deve avere paura di essere considerati degli spioni. Non si tratta di fare la spia ma di aiutare una persona, pensare alle conseguenze”.
Se nessuno denuncia è necessario sentire quei compagni di scuola che potrebbero sostenere la vittima. “In questo modo diamo molto protagonismo ai bambini. Non è quindi una tipica situazione in cui i docenti dicono quello che i bambini devono fare. Le proposte vengono direttamente dai bambini e questo è molto più efficace”.
Senza pubblico un atto di bullismo non ha lo stesso effetto.
Un ruolo cruciale spetta poi alla famiglia, che deve essere informata e collaborare, evitando ogni genere di attacco contro la famiglia del bullo o contro la scuola, ma aiutando a cercare una soluzione al problema. Tuttavia, se per le scuole è difficile capire quando si tratta di bullismo, anche i genitori non sempre riescono a rendersi conto se i figli sono vittime di abusi, soprattutto perché sono i bambini stessi a negare o a non parlarne. Molto dipende da persona a persona ma normalmente vi è un cambiamento nei comportamenti delle vittime. “Per esempio se a tua figlia piace molto andare a scuola ma improvvisamente non ci vuole più andare. Se capita che inizia a perdere cose o torna a casa con del materiale rotto. I sintomi fisici più frequenti sono mal di testa, mal di stomaco, perdita di appetito. Quelli psicologici sono stress, angoscia”, elenca Tiina. Tutti questi sono dei campanelli d’allarme da non sottovalutare. I genitori devono insistere con i figli, che spesso non ne parlano per paura o per vergogna, e dimostrare di essere con loro al 100 per cento.
Non si tratta di insegnare ai bambini a difendersi attaccando, perché in questo caso si crea conflitto e si rischia di peggiorare la situazione o di livellarsi ai colpevoli. Attaccare non è una soluzione. L’importante è lavorare con l’autostima, che aiuta ad avere più sicurezza in se stessi.
Anche i genitori del bullo devono mantenere la calma. “Una persona che fa del bullismo non è necessariamente una persona problematica o con una personalità aggressiva. Chiunque lo può diventare, perché si tratta di un fenomeno di gruppo: in un certo gruppo, mi comporto in un modo; poi, quando sto con i miei migliori amici, sono diverso”, spiega Mäkelä. “Una classe non è un gruppo costruito su amicizie naturali. Quindi mio figlio o mia figlia possono comportarsi in maniera inadeguata a volte. I genitori in questi casi devono essere un buon esempio per i figli e cercare le soluzioni più che i colpevoli. Bisogna parlare con il bambino, dimostrare che non si tollera questo comportamento, ma che non ci si schiera contro la persona piuttosto contro le sue azioni”.