E alla fine il problema plastica è venuto a galla… Cavallucci marini che portano a spasso cotton fioc, tartarughe avvelenate, spiagge invase dai rifiuti, isole di plastica che vagano per gli oceani. Contenere la produzione di materiali plastici è diventata una priorità assoluta, ma bisogna anche fare i conti con quella che ancora non riusciamo a smaltire o si disperde nell’ambiente, un settore in cui la creatività degli scienziati si sta rivelando il vero x-factor.
Morgan Vague, ricercatrice di Huston (Texas) che si occupa di trial clinici per la cura del cancro, ha raccontato in una TED Talk il suo progetto di smaltimento della plastica che sfrutta il lavoro di batteri selezionati per la loro capacità di digerirla.
Un mare di plastica
Neanche i suoi più accaniti detrattori potranno mai negare che l’invenzione e la produzione di massa della plastica hanno rappresentato una rivoluzione epocale nella storia dell’umanità, moltiplicando le possibilità del progresso tecnologico, trasformando radicalmente (e in meglio) le nostre vite e diventando un simbolo della modernità.
A partire dal secondo dopoguerra polistirene, polivinile, polietilene e le altre plastiche sintetiche introdotte dall’industria chimica sono parte integrante del nostro orizzonte quotidiano: dagli oggetti che maneggiamo, ai mezzi di trasporto, dal packaging dei prodotti che acquistiamo, ai vestiti che abbiamo indosso. In effetti è difficile immaginare un mondo senza plastica ma è uno sforzo diventato necessario e urgente. Infatti oggi si riesce a riciclare soltanto una piccola parte della plastica prodotta (meno del 20 per cento a livello mondiale), e l’abnorme accumulo degli ultimi decenni sta letteralmente “venendo a galla”.
Scontato il ritardo fisiologico con cui la società dei consumi fa i conti con le questioni ambientali, sembra finalmente arrivato il momento di affrontare il problema delle tonnellate di plastica (6,3 miliardi a partire dagli anni Cinquanta) che invadono gli oceani di tutto il mondo, inquinando i nostri mari, sporcando le nostre spiagge, mettendo a rischio la fauna selvatica e, di conseguenza, la nostra salute.
La plastica, che ha tempi di biodegradazione secolari, purtroppo non scompare tranquillamente sotto le onde… Tra gli oltre 400 milioni di rifiuti plastici trovati poco tempo fa su un remoto arcipelago dell’Oceano Indiano, c’erano quasi un milione di scarpe e una cosa come 370.000 spazzolini da denti. “I ricercatori stimano che entro il 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesci”, è la catastrofica profezia citata da Vague nella sua TED Talk.
Pezzi di plastica vengono ritrovati ormai nello stomaco di qualsiasi essere vivente, dagli uccelli marini alle balene alle tartarughe, mentre le microplastiche – particelle piccolissime che derivano dalla degradazione dei pezzi più grandi ma anche da trattamenti industriali e dalle nostre attività quotidiane come il lavaggio dei tessuti sintetici e le microsfere dei dentifrici, dei cosmetici e dei saponi – mangiate dai pesci e dalle altre creature marine finiscono direttamente nella nostra catena alimentare.
Secondo uno studio recente, ciascuno di noi arriverebbe a ingerire in media cinque grammi di plastica ogni settimana, l’equivalente del peso di una carta di credito.
I ricercatori stimano che entro il 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesci.
Ai miei batteri la plastica piace
“La plastica è economica, resistente, adattabile, e si trova dappertutto. Ma la buona notizia è che c’è anche qualcos’altro economico, resistente, adattabile e che si trova ovunque. E la mia ricerca dimostra che potrebbe anche darci un aiuto per il nostro problema di inquinamento da plastica”, esordisce Morgan Vague con l’aria di chi ci crede, ma vorrebbe crederci ancora di più.
Perché dannarsi l’anima con le enormi reti galleggianti di Ocean Cleanup che seguono le correnti alla caccia della Great Pacific Garbage Patch (la più grande isola di plastica oceanica) e perché finanziare progetti come quello della super-nave idrovora Ervis, ideata dal dodicenne indiano Haaziq Kaki, se esiste già in natura il nemico pubblico numero uno della plastica?
I batteri sono tantissimi (cinque milioni di trilioni di trilioni, si stima), si trovano praticamente ovunque, in ambienti diversi ed estremi, dall’intestino umano alla terra alla pelle, fino alle bocche vulcaniche sul fondo degli oceani (400° C), e, proprio per questo, devono diventare creativi per alimentarsi. “I batteri che vivono in ambienti inquinati avranno scoperto come usare la plastica come nutrimento?”, si è chiesta la Vague all’inizio della sua ricerca. Poi ha cominciato a raccogliere campioni di terreno contenenti batteri in alcuni siti particolarmente inquinati presenti nell’area di Huston in cui vive.
L’idea era quella di “cucinare” un composto privo di carbonio (che serve per la vita sia dei batteri che dell’uomo) per fornire ai suoi batteri una sola forma di nutrimento, il Pet o polietilene tereftalato, cioè la plastica più diffusa nel mondo, quella delle bottigliette d’acqua per capirsi. L’obiettivo era scoprire se, a dieta forzata di Pet, qualche batterio fosse in grado di sopravvivere, o, ancora meglio, di prosperare.
Nel giro di due anni la ricercatrice è riuscita a selezionare alcuni batteri che si erano effettivamente evoluti con l’incredibile capacità di nutrirsi di Pet. “Ma come fanno? In effetti è molto semplice. Così come noi umani scomponiamo carbonio o cibo in blocchi di zuccheri che utilizziamo per creare energia, lo stesso fanno i miei batteri con la dura plastica Pet”, spiega Vague. “I batteri hanno un enzima speciale chiamato lipasi che si lega al Pet e aiuta a ridurlo in piccoli blocchi di zuccheri. Per cui, in pratica, la plastica si trasforma da grosso e resistente agente inquinante a pranzo succulento. Forte, vero?”.
Fantasmaltimento
Nessuno nasconde l’importanza del riuso e del riciclo, delle bioplastiche, delle plastiche biodegradabili e dell’economia circolare, Vague compresa. Ma, parte i tempi lunghi richiesti dalle leggi e della sensibilizzazione su questi temi, non si può ignorare che l’quantità enorme di plastica immessa nell’ambiente sta già producendo danni a oggi difficilmente calcolabili e, in più, i numeri del fenomeno tendono ad aumentare in modo esponenziale: quasi la metà di tutta la plastica mai prodotta risale a non più di 20 anni fa .
Certo il progetto della Vague è ancora in una fase molto iniziale. Fugati, almeno secondo l’autrice, i dubbi sui rischi collegati all’uso di organismi potenzialmente pericolosi (“I batteri delle mie ricerche non sono mostri modificati geneticamente, esistono in natura e si sono semplicemente adattati al loro ambiente inquinato”), resta il problema della lentezza del processo di digestione e di come fare per velocizzarlo.
La plastica si trasforma da grosso e resistente agente inquinante a pranzo succulento. Forte, vero?
Un’opzione sarebbero gli ultravioletti, cioè un irraggiamento solare sul Pet in grado di agire “come un ammorbidente su una bistecca che trasforma i legami grossi e resistenti della plastica Pet in una forma più morbida e più facile da digerire per i batteri”, ma si tratta di prospettive ancora futuribili dal punto di vista industriale.
E ora provate a immaginare… enormi stabilimenti di trattamento dei rifiuti plastici in cui proliferano schiere di batteri affamati che aspettano ogni giorno la loro razione di cibo da irraggiare prima del consumo. Se non è fantascienza questa!
Fiumi di plastica
Ma come arriva la plastica al mare? Uno studio del 2017 ha dimostrato che circa il 90 per cento finisce negli oceani attraverso dieci fiumi soltanto, in gran parte concentrati in Asia e in Africa. Enormi corsi d’acqua che attraversano aree densamente popolate ma prive un’efficace raccolta dei rifiuti che quindi vengono trasportati direttamente verso il mare.
Ma la plastica sta ormai entrando nei fiumi di tutto il mondo. Negli Stati Uniti l’Hudson trasporta ogni giorno 300 milioni di fibre di abbigliamento nell’oceano Atlantico. Poi ci sono i sottoprodotti del trattamento delle acque reflue, i pneumatici e, a sorpresa, la pesca: in termini di peso, quasi la metà della plastica nel Great Pacific Garbage Patch sembra sia composta proprio da residui di attrezzature di pesca.
Cos’altro fare c’è da fare (e da sapere)?
A livello individuale smettere di acquistare acqua nelle bottiglie di plastica è una scelta alla portata di quasi tutti e, secondo alcuni studi, sarebbe in grado da sola di ridurre della metà la produzione di microplastiche.
Dal canto suo, il professor Richard Lampitt del National Oceanography Centre britannico, intervistato dalla Cnn, confida anche nei progressi tecnologici (filtri migliori nelle lavatrici per catturare le microfibre, lo sviluppo di plastiche meno dannose da parte dell’industria chimica) ma considera fondamentale una migliore comprensione sul modo in cui la plastica viene trasportata negli oceani, su come si degrada e su quali danni stia causando o causerà in futuro.“C’è ancora una notevole incertezza. Abbiamo bisogno di capire più a fondo i contorni del problema: quanta plastica c’è? Come ci arriva? Come si trasforma durante il suo passaggio verso il mare, e quanto fa male alle concentrazioni con cui si trova?”.