“Un talento immenso, una voce unica”, “la rockstar originale dell’industria culinaria”, “l’Elvis di tutti i bad-boys-chef”. Così è stato descritto Anthony Bourdain nella sua vita e soprattutto negli ultimi giorni, quelli seguenti alla sua morte – al suo suicidio – in un albergo di Kaysersberg, un villaggio medievale nella Francia dell’Est. Quando gli conferirono il Peabody Award, nel 2013, i giudici lo definirono invece: “Irriverente, onesto, curioso, mai condiscendente, mai ossequioso”.
Bourdain era probabilmente anche molto altro e nonostante tutte le congetture, il gossip maligno e ingiustificato, i più o meno legittimi tentativi di analisi, gli aspetti del suo carattere e della sua vita che lo hanno portato a uccidersi mentre girava un episodio del suo pluripremiato show, Parts Unknown, non saranno mai noti ai più. Si sa, invece, perchè lo ha raccontato lui stesso con la sua caratteristica franchezza in una lunga intervista a Fast Company, che era “un compilatore seriale di liste, implacabilmente e patologicamente puntuale”.
Non è poi sempre stato una rockstar, Bourdain, che ricorda come la svolta per lui sia arrivata passati i 40 anni, nel 1999. “Avevo scritto un articolo che volevo far pubblicare su un giornale gratuito chiamato New York Press e loro, anche se dichiaravano di volerlo pubblicare, continuavano a posticipare settimana dopo settimana. Allora io in un momento di ‘ubris’ ho dato retta al folle suggerimento di mia madre e l’ho inviato al New Yorker”. Il New Yorker non ci ha pensato due volte a pubblicare il pezzo, che oggi è uno dei suoi più popolari.
“Nel giro di 48 ore un editor a Bloomsbury aveva letto l’articolo e mi aveva commissionato un libro per la cifra assurda di 15mila dollari. Il libro divenne un best seller e cambiò la mia vita dalla sera alla mattina”. A quel primo, hanno fatto seguito altri libri e poi contratti per show televisivi che hanno segnato l’abbandono dei fornelli da parte Bourdain e l’inizio una nuova vita: “Ero in una posizione estremamente precaria a 44 anni (…). Avevo già fatto abbastanza casini per capire che questa era la mia occasione e che difficilmente ne avrei avuta un’altra. Quindi ho cercato di fare scelte molto caute e precise. Ero determinato a non rovinare tutto”.
Ma cosa vuol dire non rovinare tutto? “Ciò che è bene per te a breve termine non è necessariamente buono sul lungo periodo”, spiega. “Stai appena cominciando una carriera da scrittore, hai un libro, hai uno show in televisione e qualcuno ti offre un milione di dollari per pubblicizzare un farmaco anti diarrea. Sono un sacco di soldi nel breve periodo, ma poi sarai sempre quello della merda. È una condanna a vita”.
La vita è bella, perchè accontentarsi di meno di così?
“Sono sempre stato libero di fare quello che volevo, di fare gli show che volevo fare: ovunque, con chiunque volessi, in qualunque stile volessi. All’inizio non conoscevo altro modo di farlo, adesso non lo farei in alcun altro modo. La vita è bella, perchè accontentarsi di meno di così? ” La libertà infatti è sempre stata il filo conduttore della vita televisiva di Bourdain. Quella di parlare di cibo per parlare di altro, di scegliere temi, luoghi e ospiti, di dire no a quello che non lo convinceva; per esempio allo storytelling fatto sempre secondo le regole:
“Sarebbe molto semplice a questo punto fare un convenzionale show di cibo o viaggi, sarebbe come girare un film porno”, dice senza mezzi termini. “Sai dove tutti i piccoli pezzetti devono andare, sai dove cominciare e sai dove andare a finire. Io odio lo storytelling competente, a regola d’arte (…). Preferisco fallire”.
“Nei panni di chef ho accettato il fallimento: sono stato diverse volte un pessimo chef e una cattiva persona. Oggi, se fallisco, è perchè ho provato a fare qualcosa e non ci sono riuscito. O perché non sono stato in grado di fare quello che speravo di fare, o perché ho provato a fare qualcosa che in retrospettiva era chiaro non avrebbe funzionato. Ma io preferisco così, preferisco fallire gloriosamente che non provarci per nulla”.
Parla apertamente di fallimento nell’intervista, senza nascondere i momenti più bassi della sua vita e della sua carriera, cominciata a 17 anni come lavapiatti. Momenti in cui però, non importa quanto in basso fosse sceso, ricorda di aver sempre trovato, guardandosi allo specchio, una ragione in sè stesso per continuare. Anche nei giorni in cui il primo compito della mattina era procurarsi una dose di eroina o di cocaina, anche quando veniva – per giusta causa – licenziato.
Preferisco fallire gloriosamente che non provarci per nulla.
Tutto quello che è stato lo ha portato a porsi nei confronti delle persone che il suo lavoro gli faceva incontrare senza pregiudizi, pronto ad ascoltare e a imparare.
“Sii aperto a nuove esperienze, sii disposto a provare cose nuove, non avere un programma rigido, accetta atti di gentilezza spontanea senza giudizi o paura, non aver paura di andare in giro, non aver paura di mangiare un pasto cattivo. Se non rischi un pasto cattivo non gusterai mai quello magico”, questo è quello che ha appreso negli ultimi anni vissuti da raccontastorie giramondo. Sono belle lezioni da tenere a mente anche per il suo pubblico.
Belle e utili: “Sii umile, sii riconoscente, sii consapevole del fatto che sei probabilmente la persona più stupida nella stanza, la meno equipaggiata per capire chi è veramente in controllo e cosa stia realmente accadendo”.