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Photo by Kalle Gustafsson / CC BY

Agricoltura a minore impatto: il ritorno alle piante perenni


L’agricoltura come la conosciamo oggi è dominata per lo più da cicli annuali che prevedono la semina, la raccolta e la sistematica aratura del terreno, eppure in natura non è sempre così. In quella che Stefano Mancuso chiama “la nazione delle piante” (La nazione delle piante, edizione Laterza, 2019) non tutte le specie sottostanno a queste tempistiche serrate, esistono anche le piante perenni.

Il fatto che la maggior parte delle piante coltivate abbia invece un ciclo annuale è il risultato di una scelta che l’essere umano ha compiuto millenni fa  quando, passando da raccoglitore a coltivatore ha preferito addomesticare piante che garantissero una maggiore produttività.“La gran parte delle specie che coltiviamo deriva da antenati con caratteristiche perenni”, spiega infatti Franco Miglietta, dirigente di ricerca CNR-IBIMET di Firenze, in un’intervista per Novà, il Sole 24 Ore.

Ma cosa ha comportato questa scelta? A causa dell’aratura annuale il terreno è sottoposto a un forte stress e a continua perdita di nutrienti, un problema che già in passato si è provato a risolvere con il maggese, eppure non è bastato. Sfide globali come aumento della popolazione e scarsità di terre disponibili per la coltivazione rendono ancora più pressante affrontare questo problema. Lee Dehaan e i suoi colleghi del Land Institute in Kansas vorrebbero risolverlo facendo il passaggio inverso a quello degli antichi: da piante addomesticate annuali a piante perenni.  In particolare nell’ambito dei cereali. E ci sono (quasi) riusciti.

Abbiamo capito che una soluzione all’impoverimento del terreno sono le radici delle piante perenni, che si sviluppano in profondità cercando nutrimenti non solo nella parte superficiale del terreno e restituendo, nel contempo, il carbonio perso”, spiega Dehaan del Land Institute a PBS Newshour.

Come accennato, ci sono volute migliaia di anni di domesticazione per ottenere le piante da cui oggi ricaviamo la maggior parte del nostro fabbisogno calorico, principalmente grano, riso e mais. Ma oggi nell’arco di poche decine di anni è possibile creare un nuovo tipo di coltura, grazie ai marker genetici che ci permettono di selezionare le caratteristiche più desiderate. Proprio questa è la metodologia adottata dai ricercatori del Land Institute che da 40 anni lavorano allo sviluppo di un nuovo tipo di cereale che possa racchiudere le caratteristiche positive dei due tipi di colture: il massimo della produttività unita a un minor impatto sull’ambiente. E i risultati cominciano a vedersi. Tramite selezione mirata hanno sviluppato un cereale che hanno nominato Kernza®. Un risultato straordinario anche se non ancora perfetto.

Questo cereale di “nuova generazione” infatti ha chicchi ancora troppo piccoli che ne riducono la produttività di un terzo rispetto al grano. Inoltre nel tentativo di aumentarne le dimensioni, la pianta ne è talmente appesantita da piegarsi sotto il proprio peso, rendendo perciò molto difficile il raccolto. Si prevede, però, che nell’arco di una ventina di anni si riuscirà ad ovviare a tali problemi.

Abbiamo capito che una soluzione all’impoverimento del terreno sono le radici delle piante perenni.

L’approccio dei ricercatori statunitensi raccoglie probabilmente ampio consenso. Nel 2011 la Fao ha valutato e incoraggiato l’utilizzo delle piante perenni auspicando di arrivare ad un loro impiego pari al 20 per cento del sistema agricolo annuo. Tuttavia, nonostante gli innumerevoli aspetti positivi di un simile obiettivo, va tenuta in considerazione l’altra faccia della medaglia: l’industria delle sementi ha un giro d’affari di miliardi di euro annui, se il 20 per cento dell’agricoltura fosse composta da piante perenni intaccherebbe notevolmente questo mercato.

Secondo il report Fao, però, per gli agricoltori di alcune aree – quelle più minacciate dai cambiamenti climatici – potrebbero invece trarre vantaggi anche economici da queste nuove varietà di piante: “un sistema agricolo basato su piante perenni può trasformare l’economia degli agricoltori perché queste sono molto più resistenti e hanno una maggior resilienza al clima”. L’aumento del riscaldamento climatico, infatti,  favorirà una sempre maggiore proliferazione di erbacce, funghi e parassiti, fattori che hanno un impatto minore sulle piante perenni rispetto a quello che hanno sulle piante con un ciclo di vita annuo. Inoltre le radici, che possono raggiungere anche i tre metri di profondità, hanno più probabilità di raggiungere più fonti d’acqua, rendendo così la pianta capace di resistere anche a climi più secchi.