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Come riprenderci il nostro tempo libero da Internet


Spesso potremmo avere l’impressione che il nostro rapporto con Internet ci stia un po’ sfuggendo di mano. Magari abbiamo installato una di quelle app che ti dice quante volte attiviamo lo schermo del telefono o ci siamo cancellati da qualche social network per poi inesorabilmente farci ritorno. Fra uno scroll e l’altro sono già passati venti minuti senza rendercene conto e siamo di nuovo punto a capo. Riuscire a riprendere il controllo di questa relazione complicata con i nostri schermi, secondo lo psicologo sociale Adam Alter, non solo è fondamentale è anche fattibile se si sa da dove cominciare. Lo aveva raccontato in una TED Talk qualche tempo fa e lo ha ribadito più recentemente in questa intervista a Npr TED Radio Hour.

Bisogna partire da un fatto apparentemente inaspettato, spiega Alter. Ovvero da una domanda semplice che un giornalista del New York Times fece a Steve Jobs nel 2010, alla vigilia del lancio dell’iPad: “i suoi bambini devono adorare l’iPad…”. Il fondatore della Apple rispose che non lo avevano ancora usato, “a casa limitiamo l’accesso dei ragazzi alla tecnologia”. Può sorprendere, ma sono anni ormai che le cronache raccontano come i signori di Internet tendano sempre a mantenere una certa distanza dalle loro stesse creature; ed è altrettanto comune che i figli dei dirigenti della Silicon Valley frequentino scuole steineriane, dove si dedicano giochi tradizionali e in cui i telefoni cellulari sono rigorosamente off limits.

Allora viene quasi spontaneo interrogarsi ulteriormente su che rapporto abbiamo noi e le persone che ci circondano con la tecnologia. E uno dei dati più interessanti da cui partire è certamente il tempo che trascorriamo davanti ai nostri schermi. Un tempo che continua ad aumentare di anno in anno: in media un italiano trascorre più di sei ore al giorno connesso a Internet contro una media mondiale di quasi sei ore e quaranta minuti. Il calcolo è presto fatto: tre mesi all’anno. Otto ore di sonno, Otto ore di lavoro, sei ore sullo schermo e non ci rimangono che due ore di tempo libero: “Qui ci sono i momenti magici, qui c’è la vostra umanità”.

Ci sono molti vantaggi, ma proviamo a chiederci ora, che ‘cosa succede in quel tempo davanti agli schermi? Mi arricchiscono le app che uso?’

Qualcuno tuttavia potrebbe obiettare che in fin dei conti la tecnologia ha fatto anche cose buone. Vero: “Senza, per esempio, non avrei potuto far incontrare i miei figli piccoli con molti dei miei parenti che vivono in Australia”, racconta Alter. “Ci sono molti vantaggi, ma proviamo a chiederci ora che cosa succede in quel tempo davanti agli schermi? Mi arricchiscono le app che uso?” Gli utenti dichiarano di sentirsi bene dopo aver utilizzato applicazioni legate per esempio alla lettura, all’esercizio, all’educazione o al relax e in media vengono dedicati “nove minuti al giorno su ognuna di queste”. Ma esistono altre applicazioni che fanno sentire le persone meno felici, come quelle di appuntamenti, i social media, ma anche il gaming e le news: “Se fermi le persone per strada chiedi loro, ‘come ti senti?’ (a utilizzare questo tipo di applicazioni, ndr)’, circa la metà di loro dirà che non prova sentimenti positivi nell’adoperarle. E questo è interessante, perché le persone passano 27 minuti al giorno su ognuna”.

Come si spiega un comportamento simile? Non è un segreto che i grandi colossi di Internet investono ormai da anni importanti risorse per studiare e progettare meccanismi in grado di tenerci il più impossibile incollati allo schermo. È quella che viene chiamata economia dell’attenzione, per semplificare: investiamo la nostra attenzione in tempo trascorso su Facebook, tanto per fare un nome. Costi per la piattaforma: zero (a meno che qualcuno non vi abbia mai pagato per gironzolarvi sopra per un po’ e/o per le foto che caricate). Entrate: milionarie, garantite da investitori pubblicitari sicuri che il loro prodotto passerà sotto l’occhio attento di un utente ben targetizzato (non è una novità che Facebook monetizzi anche i nostri dati).

Le strutture di queste applicazioni sono progettate appositamente per sfruttare meccanismi fisiologici del nostro cervello che fra una gratificazione a breve termine e l’altra, fanno in modo di trattenerci il più possibile, arrivando in alcuni casi a dar vita a vere e proprie dipendenze diagnosticate. Per fare tutto ciò ovviamente non deve esserci alcun limite, nessun “segnale di pausa” come li chiama Alter. “Un segnale di pausa è in pratica il segnale che è tempo di andare avanti, di fare qualcosa di nuovo o di diverso. Nel XX secolo erano in ogni cosa che facevamo. Pensate ai giornali. Finite di leggerli, li ripiegate e li mettete da parte. Riviste, libri, un capitolo ti invita a considerare se vuoi continuare. Così una trasmissione televisiva, finiva e dovevi aspettare una settimana per quella successiva”.

Oggi questi segnali nel mondo di internet non esistono più: “Il feed continua a scorrere potenzialmente all’infinito e tutto è senza fondo, Facebook, Instagram, Twitter, Email, News e così via”. Per cambiare i nostri atteggiamenti dunque, dobbiamo istituire dei segnali di pausa, continua lo psicologo. Un esempio? Un’azienda di design olandese ha fissato le scrivanie a dei pali ancorati al soffitto. Alle 18, scaduto l’orario di lavoro, non importa che cosa tu stia facendo: le scrivanie si alzano. Fine.

La vostra vita sarà più ricca e più piena perché respirerete in quell’esperienza e perché avrete lasciato il cellulare in auto.

Ma nella nostra quotidianità? “Non basta dire dalle 17 alle 18 non uso il telefono. Questo tempo varia in base ai giorni. Una strategia migliore sarebbe dire: ci sono certi appuntamenti che avvengono ogni giorno, come cenare. A volte sarò solo, a volte al ristorante, con altri ma la regola è che durante la cena non uso il telefono. È molto più fattibile, perché è difficile resistere alle tentazioni, ma quando arriva il segnale di pausa, l’ora di cena, il telefono se ne va e fine”.

Certo non è facile, ammette Alter, all’inizio fa male distaccarsi da Internet ma poi ci si abitua “si supera l’astinenza allo stesso modo che per una droga”. Alla fine le persone dicono di sentirsi meglio e iniziano ad applicare questa strategia anche ad altri momenti, come “la prima ora del mattino o nel weekend, mettendo la modalità aereo, in questo modo si usa come fotocamera e non come telefono”.

Perché alla fine, sono sì dispositivi fantastici ma, come conclude lo psicologo, “il modo in cui gli usiamo è come guidare per una lunga strada dritta, acceleratore a tavoletta. Al lato della strada avete, per dire, un oceano bellissimo. Avete due scelte: potete fare una foto dal finestrino, che è la cosa più semplice ed immediata. O accostare, togliervi le scarpe, sentire la sabbia sotto i piedi, lasciare che l’acqua dell’oceano vi bagni le caviglie. La vostra vita sarà più ricca e più piena perché respirerete in quell’esperienza e perché avrete lasciato il cellulare in auto”.