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Violenza sulle donne: le molte conseguenze di un problema globale e culturale


Una su tre nel mondo, poco meno di una su tre in Italia, ovvero il 31,5 per cento delle donne tra i 16 e i 70 anni, stando ai dati Istat. Oltre 730 milioni, pari a più del 30 per cento, confermano i dati delle Nazioni Unite. Tante sono le donne che hanno subito almeno una volta nella vita una violenza fisica e/o sessuale. E sono molte di più se si considerano tutte le forme di violenza, anche quelle che forse non immaginate possano esserlo, per esempio quella economica, psicologica o anche lo stalking. A quanto sale quella percentuale se si considerano anche tutti questi comportamenti che limitano la vita, la salute e la libertà delle donne? Diventa il 50, il 70, il 90 o il 100 per cento? Non lo possiamo sapere perché questi dati non ci sono.

Se considerare queste come forme di violenza sembra un’esagerazione, forse conviene andare a riguardare la definizione contenuta nella Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1993 che la definisce come “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

È un altro documento tuttavia a specificare, quasi 20 anni dopo dalla dichiarazione Onu, che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani: la Convenzione di Instanbul ovvero la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011. Ratificata dall’Italia nel 2012, purtroppo non è ancora entrata in vigore a causa del mancato riconoscimento ufficiale da un sufficiente numero di stati. Ed è la stessa convenzione di Istanbul a definire finalmente la violenza psicologica, nel suo articolo 33: “una condotta portata avanti con l’intenzione di ledere profondamente l’integrità psicologica di una persona mediante coercizione o minacce”.

Per chiarire meglio questo concetto, il Methodological manual for the EU survey on gender-based violence against women and other forms of inter-personal violence (EU-GBV) descrive l’intero range di comportamenti da considerare violenza psicologica, compresi la violenza economica, lo “sminuire e umiliare; vietare di vedere amici o familiari, o di dedicarsi ad hobby o altre attività; tracciare tramite GPS, telefono o social network; vietare di uscire di casa senza permesso o rinchiudere; vietare di lavorare; controllare le finanze di tutta la famiglia e le spese personali; conservare o portare via la carta d’identità/passaporto; urlare e fracassare oggetti o comportarsi in un certo modo con l’obiettivo di intimidire l’intervistato; minacciando di ferire i figli o altre persone vicine; minacciando di portare via i figli o di negare l’affidamento; e minacciando di farsi del male”. “Con questa dichiarazione”, ci spiega Valeria Condino, specialista in Psicologia clinica e psicoterapeuta, “la comunità internazionale ha finalmente riconosciuto che la violenza contro le donne è un grave problema che riguarda sia la salute pubblica sia le politiche sociali sia i diritti umani”.

Un problema globale, un problema culturale

“Chiaramente quella della dichiarazione ONU è una definizione ampissima, di ampia portata, che definisce la violenza nello specifico come una serie di azioni che causano o hanno il potenziale di causare danni, e sottolinea come questi siano radicati nella diseguaglianza sessuale”, prosegue Condino. In questo senso è bene ricordare che la violenza viene commessa contro diverse tipologie di donne e con diversi tipi di abusi: dall’aborto selettivo all’abuso contro le donne anziane, dalle mutilazioni genitali femminili agli stupri di guerra, dalle discriminazioni di genere agli abusi sul luogo di lavoro. In un certo senso sono violenza anche i gap di genere negli stipendi e nella ricerca di ogni settore perché limitano la libertà economica della donna e condizionano il suo stato di salute. Inoltre, la violenza riguarda donne di ogni età, di ogni estrazione sociale o livello di istruzione. Allo stesso modo anche i potenziali perpetratori sono moltissimi.

La forma di violenza più comune è quella perpetrata da partner, ex partner, coniuge (Intimate partner violence, Ipv), ma anche genitori o altri familiari, o comunque persone parte della vita della donna. A livello globale il 42 per cento di violenza fisica avviene per mano di un partner intimo, e lo stesso vale per il 38 per cento dei femminicidi. Secondo i dati Onu citati prima, “ogni giorno 137 donne vengono uccise da un membro della loro famiglia. Si stima che delle 87.000 donne uccise intenzionalmente nel 2017 a livello globale, più della metà (50.000) siano state uccise da partner intimi o familiari. Più di un terzo (30.000) delle donne uccise intenzionalmente nel 2017 sono state uccise dal loro attuale o ex partner intimo”. Globalmente solo il 6 per cento delle donne coinvolte nel sondaggio ha dichiarato di aver subito una violenza non da parte del partner, tuttavia, sempre secondo il documento delle Nazioni Unite, “è probabile che la reale prevalenza della violenza sessuale non da parte del partner sia molto più elevata, considerando il particolare stigma relativo a questa forma di violenza”.

Ogni giorno 137 donne vengono uccise da un membro della loro famiglia.

“Questa tipologia di dominio dell’uomo sulla donna si distingue da tutti gli altri rapporti di potere. Non ci sono delle tipologie uguali a quelle che si svolgono tra uomo e donna e questo chiaramente ha delle implicazioni profonde e molto contraddittorie nella nostra società. Negli ultimi vent’anni quelle che sono le evidenze scientifiche della violenza perpetrata contro le donne sono aumentate e finalmente stanno portando a una panoramica un po’ più ampia del fenomeno”, prosegue la psicoterapeuta. “Inoltre, questa è una problematica di sanità pubblica di proporzioni epidemiche: indagini recenti hanno mostrato un’alta prevalenza del fenomeno a livello globale”. C’è infatti un consenso generale sul fatto che la sua portata sia ancora più ampia e sia soprattutto sottostimata. Sottostimato è anche proprio il fatto che la violenza, oltre a essere un problema in sé stessa, è anche sintomo di una questione più profonda e grave.  “In termini sociali noi consideriamo la violenza in famiglia, il maltrattamento, la violenza contro le donne in generale come la punta dell’iceberg: è quello che emerge di un fenomeno che in verità è radicato profondamente nella nostra società, non solo nella nostra occidentale ma in tutte le società, in tutte le parti del mondo, nei Paesi poveri come nei Paesi ricchi, nelle classi più alte come in quelle più basse e problematiche”, ci spiega Giulia Paparelli, dello Spazio Donna San Basilio gestito dalla cooperativa BeFree.

“Quello che è importante tenere presente nel lavoro con le donne che vivono situazioni di violenza è proprio il fatto che molto spesso l’oppressione che noi viviamo all’interno della società si somma alla violenza che si vive dentro casa e quindi una donna che subisce maltrattamenti in famiglia molto spesso è una donna che non lavora o ha un lavoro in nero non garantito o è sfruttata in termini lavorativi, e in termini sociali vive un’oppressione che in qualche modo fa da cassa di risonanza a quello che lei vive dentro casa. Quindi il percorso di fuori uscita dalla violenza è fortemente legato alla possibilità di avere degli strumenti che sono appunto l’autonomia di pensiero e l’indipendenza economica e abitativa. Quindi sia in termini un po’ più simbolici sia in termini materiali e concreti, la mancanza di opportunità per le donne in questa società molto spesso è quello che tiene le donne nelle situazioni di violenza”.

L’impatto della violenza

“È importante sottolineare, sebbene non dovrebbe essercene bisogno, che la violenza influisce sul benessere ma anche sulla salute delle donne con elevati costi sia sociali che economici”, ricorda Valeria Condino. Tuttavia per quanto riguarda l’impatto della violenza sulla salute mentale di chi la subisce, soprattutto della violenza nelle relazioni intime (Ipv) in Italia non sono tantissimi i dati. “La violenza può causare l’esordio e la persistenza di disturbi di natura mentale. Dai risultati degli studi che si occupano d violenza sulle donne, emerge un più alto rischio di manifestare disturbi depressivi, ansiosi e post-traumatici da stress. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha individuato inoltre anche abuso di alcol e droga, disturbi del comportamento alimentare e del sonno, comportamenti sessuali a rischio e tentativi di suicidio o autolesionisti. Alla base di tutti questi quadri clinici vi è l’esposizione prolungata della vittima a una situazione di stress o comunque fortemente traumatica, che rompe l’equilibrio psicofisico della persona, generando una serie di risposte a catena sia sul piano somatico che su quello psicologico”. Secondo uno studio, pubblicato ormai quasi dieci anni fa da Plos One, le donne che vivono una situazione di violenza hanno una probabilità 2,7 volte maggiore di sviluppare una depressione, quattro volte maggiore di sviluppare un disturbo d’ansia, sei volte maggiore di abuso di alcol e sostanze. Sempre secondo lo stesso studio poi, la probabilità di pensare concretamente a togliersi la vita è 3,5 volte più alta per le donne che hanno avuto un’esperienza di violenza domestica rispetto a donne che non hanno vissuto la medesima situazione.

La violenza può causare l’esordio e la persistenza di disturbi di natura mentale: un più alto rischio di manifestare disturbi depressivi, ansiosi e post-traumatici da stress.

“La violenza sessuale chiaramente determina anche degli effetti diretti che non sono esclusivamente nell’ambito della salute mentale ma provocano una serie di problematiche nella salute fisica, spesso ci possiamo trovare di fronte a gravidanze indesiderate, situazioni ginecologiche compromesse, malattie sessualmente trasmissibili, disfunzioni sessuali e non solo”, spiega Condino. “Queste sono conseguenze molto gravi che a loro volta si ripercuotono sulla salute mentale. A questo è importante aggiungere che la violenza psicologica, spesso sottovalutata, è altrettanto distruttiva e ha anch’essa effetti invalidanti anche se più difficili da riconoscere. Quindi bisognerebbe evitare di considerarla invece come una violenza che non ha effetti”.

Infine, la violenza nelle sue diverse forme – anche se non lascia segni evidenti sul corpo – porta a una serie di problematiche come dolori ricorrenti, mal di testa, dolori lombari, sintomi associati al sistema nervoso centrale che comprendono molto spesso svenimenti o crisi; molto frequentemente sintomi gastrointestinali, come disturbi dell’appetito, disturbi dell’alimentazione, sindrome cronica dell’intestino irritabile, o sintomi che in generale vengono associati a stress cronico.

Il ciclo della violenza

C’è un pattern che è possibile osservare all’interno di molte relazioni violente, come ci spiega Erica Pugliese, psicoterapeuta presidentessa dell’Associazione Millemé – Violenza di Genere e Dipendenze Affettive. Questo pattern viene chiamato ciclo della violenza. “Inizialmente ogni vittima di violenza vive una fase cosiddetta di luna di miele: nessuna donna racconta di aver ricevuto uno schiaffo al primo incontro, anzi la maggior parte delle vittime di violenza racconta di essere quasi colpita dalla gentilezza di quel partner che poi diventerà il partner maltrattante, il partner violento. A questa fase fa spesso seguito quella dell’aumento della tensione in cui spesso le donne riportano di avere la percezione di ‘camminare sulle uova’ con degli alti che sono molto alti e dei bassi che sono molto bassi, per poi finire nella fase di maltrattamento vero e proprio quindi dall’abuso verbale, psicologico emotivo fino – quando si verificano – alla violenza sessuale, alla violenza di tipo fisico”. Questo percorso poi si conclude con il ritorno alla fase di luna di miele.

“Generalmente alcune vittime raccontano di una fase di discolpa da parte dell’uomo maltrattante”, prosegue Pugliese, “tra il maltrattamento vero e proprio e la fase di luna di miele. Questa fase di discolpa tende ad accorciarsi nel tempo, a volte fino a non essere più presente perché del maltrattamento l’uomo incolpa la donna attraverso un’attribuzione di responsabilità: ‘se ti ho picchiata, se ti ho fatto male, se ti ho maltrattata è perché tu mi hai provocato’. Oppure si applica un meccanismo del tipo: ‘mi è successa un’esperienza brutta oggi quindi non è colpa mia, a causa di questo evento che mi ha ferito – un litigio a lavoro, un litigio in famiglia – io mi sono attivato e ho usato violenza contro di te’. Quindi c’è una discolpa che è sempre più esternalizzante, con un locus of control esterno, e poi il ritorno, quindi il perdono da parte della donna della violenza, l’accettazione della colpa, l’assunzione di una responsabilità che non è assolutamente la sua, che coincidono con la nuova fase della luna di miele, a partire dalla quale si riproduce  nuovamente il ciclo infinito della violenza”.

“Quello che molto spesso osserviamo nel nostro lavoro quotidiano”, ci spiega poi Paparelli, “è che la violenza si esprime con più crudeltà e più forza proprio quando le donne provano a rompere questo meccanismo di sottomissione, che in qualche modo è il ruolo che ci viene inculcato fin da quando siamo bambine, essere quelle docili, essere quelle che non rispondono, essere quelle educate, gentili, emotive, che poi in età adulta diventa, all’interno di una relazione, avere un ruolo subalterno rispetto all’uomo che hai a fianco”.

A chi rivolgersi per uscire da una relazione violenta?

Per richiedere il sostegno necessario a uscire da una relazione violenta, una delle cose più importanti è sapere come farlo e quali servizi di supporto esistono. “Purtroppo nel nostro Paese il sistema di contrasto alla violenza di genere non è adeguato a rispondere alla complessità e alla pervasività del fenomeno; siamo nettamente al di sotto degli standard richiesti dalla Convenzione di Istanbul ma credo che ciò che abbiamo a disposizione sia bene usarlo al meglio e diffonderne la conoscenza il più possibile”, ci spiega Rachele Damiani, psicoterapeuta e operatrice antiviolenza della Casa delle donne Lucha y Siesta di Roma. Damiani ci ricorda per prima cosa che esiste un numero nazionale di emergenza 1522, a cui si può chiamare in qualunque ora del giorno e della notte in caso di necessità e che è in rete con tutti i centri antiviolenza d’Italia. Questo è un primo strumento che le donne hanno a disposizione. Purtroppo sono molto poche le donne che riescono a denunciare una situazione di violenza: secondo i dati della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, per esempio, solo il 15 per cento delle donne uccise tra il 2017 e il 2018 aveva sporto denuncia, la maggior parte – il 63 per cento – non solo non aveva denunciato ma non aveva mai parlato della propria situazione con qualcuno.

Nel nostro Paese il sistema di contrasto alla violenza di genere non è adeguato a rispondere alla complessità e alla pervasività del fenomeno.

Tuttavia, una volta che una donna riesce a trovare la forza di provare a uscire da una situazione di violenza, esistono in Italia strutture diverse in base alle diverse necessità del percorso. “Solitamente il primo punto di accesso è il centro antiviolenza che ha la funzione di tenere le fila del percorso e attivare di conseguenza tutti i nodi della rete che si ritengono necessari”, prosegue Damiani. “I centri antiviolenza sono finanziati dalle istituzioni pubbliche (solitamente comunali o regionali) e gestiti da associazioni femministe con una loro storia nel settore e con delle competenze specifiche sul contrasto alla violenza. All’interno dei centri ogni intervento messo a disposizione è gratuito e vi si trova un’equipe formata da operatrici specializzate – e di figure come avvocate, psicologhe, assistenti sociali, orientatrici al lavoro, educatrici, mediatrici e via dicendo – che costruiscono insieme alla donna, in base ai suoi desideri e alle sue necessità, un percorso di autonomia e di fuoriuscita dalla violenza. Ci sono poi delle strutture di accoglienza abitativa (case rifugio, case di semiautonomia ecc.), un comparto su cui la città di Roma ha un’enorme carenza: sul totale necessario di oltre 300, calcolato in base al numero di abitanti, ci sono solo circa 25 posti letto per donne in fuga da situazioni di violenza”.

“Per chi come me svolge un lavoro psicoterapeutico, avere chiara questa panoramica può essere di aiuto nell’inviare le nostre pazienti verso i centri antiviolenza, consapevoli che lì potranno trovare personale formato a sostenere e indirizzare le donne in base alle specificità della loro situazione, alle possibilità reali di quel territorio, a una accurata valutazione del rischio e ad altri fattori che a noi professionist* della salute possono sfuggire e che anzi potrebbero saturare il campo non permettendoci di lavorare su altri livelli. Inoltre, essere informat* su questo mondo può sicuramente aiutare i e le terapeut* ad avvicinarci alla storie delle nostre pazienti, a capirle meglio e dunque a poterle aiutare in maniera più proficua”, conclude la psicoterapeuta.

Il centro antiviolenza si pone dunque come fulcro del percorso di fuoriuscita di donna da una situazione di violenza, in un momento in cui una donna vede entrare – anche prepotentemente – a far parte della sua vita tanti nuovi fattori e figure, che vanno coordinati e gestiti senza che sia preclusa la sua autonomia di scelta.

Garantire la possibilità di scelta della donna è fondamentale: infatti ne è o ne è stata spesso privata come risultato della massima forma di controllo, all’interno della sua situazione di violenza. Ecco perché Giulia Paparelli specifica quanto sia importante lasciare che ciascuna faccia il proprio percorso, prendendo le scelte che a lei sembrano più giuste, senza entrare nel merito, ma consentendole di rivendicare una propria autorità e autonomia. “Nel dare sostegno alle donne che vivono situazioni di violenza e che vogliono fuori uscirne, noi abbiamo un approccio completamente rivolto a quello che loro vogliono fare. Quindi non abbiamo una ricetta e non siamo noi ad indicare il cammino. Semplicemente affianchiamo le donne in quelle che sono le decisioni che prendono loro stesse. Lo facciamo proprio perché, appunto, molto spesso le donne che arrivano da noi sono donne che non hanno avuto la possibilità di decidere o comunque non hanno all’interno della loro relazione la possibilità di decidere nulla, quindi per noi è fondamentale riattivare quella dimensione lì, la dimensione, appunto, dell’empowerment e dell’autodeterminazione”.

 

Questo articolo fa parte di una serie dal titolo “Mind the GAP. Che genere di Salute Mentale?”, un progetto di Think2it realizzato con il supporto di