Eravamo rimasti alla democratizzazione del libro, alla presenza di autori e autrici sui social media, alla conversazione degli autori con i lettori non più necessariamente mediata dagli editori: è questo il tempo del #bookstagram e non solo quello della NYTBR. Riportavo una frase di John B. Thompson, autore che mi sta aiutando ad esplorare l’editoria (e la comunicazione) che ci attende. Ma serve fermarsi subito, almeno per dire che dietro a quell’acronimo c’è la New York Times Book Review, lo spazio che da 125 anni contribuisce a determinare fortune e sfortune di autori, libri ed editori (a proposito, per celebrare l’anniversario il quotidiano offre l’accesso gratuito a decine di bellissime interviste accessibili da questo link).
I mesi successivi al lockdown più rigoroso osservato durante la pandemia hanno riavvicinato qualcuno alla lettura: come ha scritto Paolo Bianchi su il Giornale l’8 ottobre 2021 commentando i dati presentati ad un convegno della Fondazione Mondadori, “l’analisi periodica che l’Associazione italiana editori (Aie) realizza in collaborazione con Nielsen, [ha mostrato che, ndr] nei primi nove mesi dell’anno il mercato di varia, ovvero libri di fiction e non fiction venduti nelle librerie fisiche e online e nella grande distribuzione, vale 1.037,1 milioni di euro, in aumento del 29 per cento sul 2020, anno della pandemia, e del 16,2 per cento rispetto al 2019”.
È una buona notizia non solo per le case editrici e per gli autori, perché – come scriveva Nicola Lagioia su Internazionale in uno dei momenti di maggiore preoccupazione durante la crisi sanitaria – “la filiera del libro (dalle case editrici alle librerie, dalle tipografie a tutto il mondo parcellizzato di traduttori, uffici stampa, agenzie di comunicazione, redattori, autori, grafici e così via) dà lavoro a tantissime persone. La sola editoria libraria (fonte Aie) muove un giro d’affari più grande di quello che si può immaginare, ben superiore a quello del cinema (di sette o otto volte), della musica (di dodici o tredici volte), così come supera di alcune centinaia di milioni il settore dei quotidiani e la tv pubblica se ci si limita al canone.” Lagioia aggiungeva qualcosa che pochi sanno: “A differenza di altri settori culturali, tuttavia (alcuni dei quali, com’è sensato che sia, vengono in piccola o gran parte sostenuti dallo stato: senza soldi pubblici, per dire, il cinema italiano morirebbe), l’editoria vive prevalentemente sul mercato. Credo che questo sia un bene, perché se da una parte allontana la tentazione dell’assistenzialismo, dall’altra obbliga tutti a innovarsi di continuo, a non vivere di rendita”.
I grandi gruppi editoriali sono responsabili dell’80 per cento della produzione.
Cercare strade nuove, inseguire i gusti dei lettori, indovinare i media più adatti per valorizzare un contenuto è impegnativo e costa molto. Anche per questo la crisi sanitaria, sociale ed economica che stiamo attraversando ha messo nei guai molte case editrici, soprattutto tra quelle più piccole e meno preparate a rispondere all’imprevisto della pandemia. È ancora Lagioia che scrive: “Le grandi realtà dei gruppi editoriali – che in Italia sono responsabili dell’80 per cento della produzione, dei veri e propri oligopoli – hanno risposto alla progressiva diminuzione di lettori (cioè di clienti) aumentando la varietà (e quindi la quantità) della produzione. È per questo motivo che le grandi realtà, Mondadori-Rizzoli, Feltrinelli, il gruppo Gems, Giunti, hanno anche la propria distribuzione fisica nelle catene (Mondadori store, Feltrinelli, Messaggerie e Giunti al punto) e online (Mondadori ha il proprio e-commerce, Feltrinelli è in joint venture con Ibs, Giunti si appoggia ad Amazon). Questi grandi agglomerati costituiscono il 70 per cento del mercato, mentre le librerie ‘indipendenti’ (cioè: non di catena) solo il 22 per cento.” Lo scrittore – e direttore del Salone del libro di Torino – dice qualcosa che può sembrare strano: alla diminuzione dei lettori si risponde aumentando la produzione di libri. È un paradosso legato al fatto che un’informazione così ricca ci porta a coltivare interessi sempre più particolari, ad approfondire argomenti sempre più di nicchia, a seguire autori che in pochi conosciamo: gli editori lo sanno e cercano di accontentare i nostri gusti tanto irrequieti. Non solo: la produzione di libri aumenta anche perché gli editori sono allo stesso tempo proprietari della maggior parte dei punti vendita e devono costantemente rifornirli di novità che non dureranno più di tre mesi sui banconi delle librerie, sospinte poi sugli scaffali o direttamente al macero dai titoli della stagione successiva.
Fatti e cifre delle librerie italiane. E Amazon
In Italia le librerie sono poco più di 3.500. Lazio, Lombardia e Piemonte sono le regioni in cui ne troviamo di più. Al Sud non sono poche, circa il 30 per cento, mentre invece valle a trovare nel nord est del Paese: sono solo il 17,6 per cento del totale italiano. Nel 2012 le librerie erano 3.901, in meno di 10 anni hanno chiuso in 400 (al netto di una piccola quota di nuovi punti vendita aperti in questi anni). Un calo che preoccupa le oltre 11mila persone che lavorano in libreria, anche se però le sensazioni dei librai sono oggi positive: il 46,3 per cento delle librerie ha visto entrare più clienti nel corso degli ultimi sei mesi del 2020 rispetto ai mesi precedenti. Funzionano le misure adottate dal Governo, dal bonus docente al contributo dato alle biblioteche per acquistare libri, fino al riconoscimento del libro come bene essenziale e al conseguente permesso alle librerie di restare aperte anche in zona rossa quando l’Italia era a colori.
“Sul totale dei clienti che nel corso dell’ultimo anno hanno acquistato almeno un articolo in libreria, quasi otto su dieci sono persone che appartengono alla clientela storica del negozio”. In questa frase tratta da un rapporto dell’Associazione italiana librai i dati spiegano i comportamenti delle persone che leggono e di quelle che vendono: i primi vanno nella libreria di cui sono clienti perché sanno di poter trovare cosa cercano e i secondi non hanno interesse ad arricchire l’offerta nel proprio punto vendita perché non conviene mettersi in casa titoli che potrebbero interessare solo una quota marginale di clienti.
Ecco, ci siamo. È a questo punto che possiamo far entrare in questo post quello che, nello scenario che stiamo descrivendo, è la presenza incombente, il convitato di pietra: Amazon. Quando nel 1994 Jeff Bezos decise di iniziare a realizzare concretamente il sogno di costruire “the everything store”, i libri in commercio erano oltre 3 milioni: oggi i 120 punti vendita Feltrinelli riescono ad offrire ai clienti circa 200 mila titoli. L’abbondanza dell’offerta, l’impossibilità di renderla interamente disponibile in punti vendita fisici e la “stabilità” del prodotto (un libro è lo stesso ovunque tu acquisti la tua copia) suggerirono a Bezos di scegliere i libri per partire con la sua avventura. Che si trattasse di una scommessa vincente fu chiaro da subito: dai 15,75 milioni di dollari fatturati nel 1996 (secondo anno di attività) ai 2 miliardi e 760 milioni del 2000. La determinazione ad avere successo fu ancora più chiara col lancio del Kindle, nel 2007, dopo tre anni di attività di un gruppo di lavoro segreto chiamato Lab126: gli ebook erano venduti a 9,99 dollari l’uno e su moltissimi titoli Amazon ci rimetteva. Era il prezzo da pagare perché il Kindle diventasse il dispositivo di riferimento per la lettura dei libri in formato digitale e una volta raggiunta la posizione dominante ci sarebbe stato il tempo di negoziare diverse condizioni con gli editori.
A distanza di quasi 30 anni – e di dispute culturali, ideologiche e soprattutto legali – Amazon è saldamente in una posizione di vantaggio nei confronti della totalità degli altri attori della comunicazione editoriale internazionale. Una posizione di monopsonio, quella che si determina quando in virtù della propria posizione esageratamente dominante un singolo acquirente può usare il proprio potere per abbassare a proprio piacimento i prezzi di vendita dei fornitori.
Ho Amazon Prime e lo uso un sacco.
“I suoi prezzi spesso vantaggiosi – spiegavano ai propri lettori i proprietari della casa editrice e/o nel 2017 – sono il risultato di una politica che a volte è arrivata ai limiti del dumping (vendere a prezzo minore o pari a quello d’acquisto dai fornitori); di una frequente elusione delle tasse (nell’ottobre 2017 Amazon è stata condannata dalla Commissione Europea a pagare alla UE 250 milioni di tasse non versate; ‘tre quarti dei suoi profitti non sono stati tassati’, ha denunciato la Commissione); di condizioni economiche inaccettabili richieste agli editori. Noi siamo appena stati oggetto di tali richieste. Ci è stato richiesto uno sconto (quello che gli editori pagano ai distributori e alle librerie come loro ‘quota’ del ricavo finale) a loro favore troppo gravoso per noi e neppure giustificato dal volume dei loro affari con la casa editrice. Di fronte al nostro rifiuto, Amazon ha sospeso l’acquisto di tutti i nostri libri e ha reso quelli che aveva in magazzino”. Quindi qualche editore si è ribellato, anche in Italia, e le ragioni economiche ed etiche per giustificare la ribellione non mancano.
Il problema è che il rifiuto dei fornitori di Amazon di aderire alle richieste dell’azienda di Bezos non avranno grande impatto fino a quando non si ribelleranno i clienti: “Ho Amazon Prime e lo uso un sacco”, ammetteva Krugman spiegando ai lettori del New York Times i rischi di un monopsonio. “Ma non è questo il problema” aggiungeva assolvendosi. Invece, al dunque, la questione è proprio questa: per chi ama, legge e usa i libri è ormai impossibile fare affidamento solo sulle librerie, vuoi perché l’assortimento è scarso o perché i commessi non sono (legittimamente) preparati a dare informazioni utili a chi cerca libri che non siano “in classifica”, o anche, semplicemente, perché le librerie non ci sono: esistono aree enormi del Paese dove non trovi un libro neanche a pagarlo oro.
In ambito scientifico, poi, le cose sono ulteriormente complicate, essendo i pochi scaffali delle librerie dedicati (teoricamente) a scienza e salute egemonizzati da titoli sui fiori di Bach, su “La mia posizione preferita”, sul “cancro a digiuno” o sul vivere “oltre il covid” spiegato dal guru della longevità. Amazon ha risposto ad un’esigenza forte di milioni di lettori che per decenni hanno subìto le scelte dei grandi player dell’editoria che hanno aperto le porte delle proprie librerie solo alle sigle editoriali che erano parte del loro stesso gruppo o ai titoli più attraenti di medicina alternativa o nutrizione-fai-da-te. Scelte in grande misura obbligate se pensiamo all’impossibilità di ospitare anche nella libreria più spaziosa più di uno su 20, 30 o anche 50 dei libri in commercio. Una selezione molto meno difendibile se parliamo invece della qualità delle scelte che determinano la presenza in libreria dei libri di politica sanitaria, nutrizione, bioetica. Amazon invece sembra ancora dare a grandi e piccoli editori le stesse opportunità di partenza. Un approccio che regalerebbe qualche simpatia a Bezos ma…
Il deprezzamento del lavoro culturale
Ma c’è una cosa che rischia di essere quasi più grave di politiche di dumping e di evasioni fiscali: la svalutazione del contenuto. Diciamola più chiaramente: per le persone, per le istituzioni e le aziende che lavorano alla costruzione e alla elaborazione di informazioni e conoscenze, quest’ultime non sono solo uno strumento per mettere chi ne fruisce in condizioni di vantaggio. Il lavoro culturale – editoriale, redazionale, giornalistico – ha anche un valore di per sé. Lo spiega bene Thompson nel suo libro che ci sta facendo da guida. “Per i grandi player della Rete, ha un senso condurre verso il basso il prezzo dell’informazione e dei contenuti, perché il costo marginale della riproduzione si avvicina allo zero e prezzi più bassi possono accrescere il vantaggio competitivo e permettere di raggiungere gli obiettivi più facilmente. Ma per i produttori di informazione e di contenuti la pressione a ridurre i prezzi estrae valore dal processo di creazione dei contenuti, lasciando sempre meno risorse a disposizione di chi – autori ed editori – investe impegno e creatività nella produzione di saperi.”
Insomma, con 0,99 euro puoi portarti a casa l’ebook di un testo costato all’autore anni di lavoro, senza contare quello della casa editrice. Cambia la percezione del valore, la gerarchia d’importanza delle cose è poco a poco sovvertita, rivoluzionata. Piano piano, cambiano anche i nostri gusti, le nostre preferenze, sempre più associate e conformi ai consumi più recenti: “Se hai acquistato questo libro a 0,99 euro potrebbe piacerti questo”, insomma. L’algoritmo di Amazon si sostituisce al consiglio del libraio o del bibliotecario. Potrebbe essere un passo avanti, ma è una questione tutta da esplorare…
Questo è il terzo articolo della nostra serie dedicata al futuro dei libri e dell’editoria. Ecco i precedenti: La salute dell’editoria, tra cialtroni e soldi spicci e La rivoluzione del libro avvicina autori e lettori.