C. è cresciuta con un padre violento, che le ha sempre insegnato che l’amore non esiste. Per questo motivo ha iniziato a prostituirsi, facendosi lasciare dei soldi per poter comprare le sigarette. Oggi vive a Torino in un gruppo appartamento con altre donne che come lei vivono l’esperienza della sofferenza mentale. R. viene da una famiglia ad alto tasso alcolemico e dopo la scuola elementare ha interrotto gli studi. Ha deciso di lasciare la campagna e di trasferirsi a Roma per lavorare come domestica. Era il 1964 e improvvisamente, dopo il primo anno di lavoro, è stata fermata dai carabinieri mentre si aggirava per la città in stato confusionario e ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Sono due donne diverse, cresciute in epoche diverse, in contesti diversi, eppure le loro storie hanno dei punti in comune. Sono due donne che si sono ritrovate ai margini della società, con un basso livello di istruzione, provenienti da famiglie con poche possibilità economiche. Sono donne vittime del contesto sociale in cui vivono, vittime di un mondo che penalizza chi è più svantaggiato.
Come sottolinea anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ingiustizia è a svantaggio delle donne nel corso della loro vita. Nello specifico, i fattori di rischio legati al genere per i disturbi mentali, che colpiscono in modo sproporzionato le donne, trovano fondamento nelle evidenti disuguaglianze sociali ed economiche più spesso vissute dalle donne e includono i tassi più bassi di scolarizzazione e occupazione, la violenza di genere, lo svantaggio socioeconomico, la retribuzione inferiore per lavori simili, la minore rappresentanza in posizioni di comando, la responsabilità per la cura degli altri. A tutto questo si aggiunge lo stigma.
Lo stigma, infatti, come perno di un circolo vizioso, ha conseguenze più gravi su chi è più svantaggiato, su chi è più povero, su chi appartiene a minoranze etniche. Ma anche sulle donne.
Stigma e salute mentale, un legame indissolubile?
Le ragioni alla base di un disturbo mentale possono essere di natura genetica o biologica, essere associate a fattori di contesto ed essere il risultato di traumi infantili o di stress subìto, o, ancora, derivare dall’ingiustizia ambientale e dalla violenza domestica. I disturbi mentali possono essere caratterizzati da sintomi che alterano la normale percezione della realtà o anche da sintomi che sono espressioni più gravi ed intense di emozioni normali. Nonostante si tratti di un problema di salute come lo sono il cancro, l’ipertensione o il diabete, la depressione, l’ansia, la psicosi, il disturbo bipolare, e in generale molte delle diagnosi di malattia mentale, sono spesso vissute da chi le riceve come un’onta e chi soffre di un disturbo mentale sperimenta vergogna, esclusione ed emarginazione, con un peso da sopportare a volte superiore a quello della malattia stessa. Le condizioni di vita di chi vive la malattia mentale non dipendono così solo dalla gravità della malattia, ma anche dall’accettazione o discriminazione delle persone malate all’interno della famiglia e del contesto sociale.
“Il tema dello stigma nella malattia mentale è un tema enorme, che tocca tutti”, ci racconta Maria Teresa Ferretti, co-fondatrice del Women’s Brain Project. “Si interseca al punto che è anche difficile capire dove finisce lo stigma e dove inizia la paura e come separare questi due concetti. È chiaro che la salute mentale e le malattie mentali fanno paura a tutti noi e quindi è chiaro che c’è una certa cautela quando se ne parla”.
Pericolosa, differente, inaccettabile, debole: così la società continua ancora oggi a guardare ed etichettare una persona che soffre di una malattia mentale. Lo stigma sociale che arriva dall’esterno sembra trovare il suo fondamento nella mancanza di informazione e di comprensione sulla malattia o nella paura, e sembra radicarsi nel confine netto che divide in due lo spazio sociale e culturale del “noi” separati da “loro”.
Il tema dello stigma nella malattia mentale è un tema enorme, che tocca tutti
Dal manicomio al territorio: la consapevolezza dello stigma per depotenziarlo
E proprio questa separazione era alla base dell’internamento manicomiale. La legge del 1904 sulla “Disposizione dei manicomi e degli alienati mentali” mirava a spogliare i malati della propria soggettività, privandoli di tutti i diritti civili. Li segregava nel manicomio – spesso situato nelle zone periferiche della città o, come nel caso di Gorizia, addirittura sul confine – chiudendoli nei reparti degli Agitati, dei Malinconici, degli Alcolisti, dei Sudici… Quando Franco Basaglia entra nel manicomio di Gorizia è il 17 novembre del 1971 e più che dalle porte chiuse, dalle sbarre, dalle contenzioni viene colpito dalle persone che vi sono rinchiuse. Gli uomini e le donne non ci sono più, sono solo internati. Vede le divise grigie e i capelli rasati. “Chi sono questi, cos’è la psichiatria?”, si chiede. E questo punto interrogativo diventa l’origine di tutto: mette da parte la malattia per incontrare le persone, aprendo le porte, abolendo tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Quando si apre la porta e si vede che dall’altra parte c’è un cittadino, viene meno il “noi” diviso da “loro”.
“Parlare mille lingue” è uno shortdoc, un documentario breve, sul passato, il presente e il futuro della psichiatria. Scritto da Rebecca De Fiore, Norina Wendy Di Blasio , con la regia di Argenis Ibáñez.
Si riporta la follia all’interno della società, vengono aboliti gli ospedali psichiatrici e istituiti i servizi di salute mentale, per garantire un’assistenza efficace e rispettosa della dignità delle persone. Nascono così il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) in ospedale, i Centri di salute mentale (Csm) come servizi per l’assistenza diurna, i servizi semiresidenziali come le residenze terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative. “Uno dei miei professori, Fausto Petrella, spesso nel parlare di riabilitazione diceva che gli interventi riabilitativi sono molto importanti per i pazienti psichiatrici perché sono tesi a restaurare delle funzioni che sono andate perse a causa della malattia”, ci racconta Davide Bruno, psichiatra e psicoterapeuta presso l’Azienda sociosanitaria territoriale Fatebenefratelli-Sacco di Milano. “Ma una delle forme di riabilitazione è quella di permettere di riabilitare il paziente, quasi nel senso giuridico, facendolo rientrare in qualche modo in un circuito di relazione, di desiderio”.
Ed è proprio in questo momento, con l’apertura delle porte dei manicomi, che, secondo Bruno, si prende reale consapevolezza dello stigma, passaggio fondamentale per provare ad abbatterlo.
Davide Bruno, Pompeo Martelli, Tommaso Achille Poliseno raccontano in questo episodio tre storie di epoche diverse, che un filo in comune: povertà, genere, migrazione come stereotipi nella salute mentale.
Dalla stigmatizzazione all’autostigmatizzazione
Abbattere lo stigma per normalizzare la malattia mentale significa parlarne cercando di separare quello che è la persona, la sua personalità, il suo vissuto, dalla malattia che si trova a vivere. “C’è grande incapacità di separare, di vedere il cervello come parte del corpo. Se si ammala il resto del corpo non ci possiamo fare niente, perché se ci viene l’ipertensione non pensiamo che con un grosso sforzo di volontà possiamo farcela passare. È la stessa cosa con le malattie mentali”, continua Ferretti. Al contrario, invece, la malattia mentale nella narrazione collettiva è ancora spesso associata a “imprevedibilità”, “desocializzazione” o peggio ancora con “scarsa volontà”, come se per combattere la depressione bastasse la forza di volontà o come se le nostre debolezze fossero causa delle malattie che riguardano la nostra mente.
Anche per questo lo stigma non proviene solo dall’esterno, ma può nascere dal paziente stesso: la persona si vede come marginale e pericoloso soggetto da evitare. Chi soffre di un disagio psichico può introiettare quanto di negativo è associato allo stereotipo sociale di malato mentale, mettendosi in una condizione di discriminazione anticipata. Varca da solo il confine immaginario da “noi” a “loro” per entrare nel territorio della discriminazione: isolato, anonimo, recluso, privo di stimoli, incapace di stare alle regole, violento.
Proprio per combattere questi pregiudizi e promuovere la consapevolezza e la difesa della salute mentale contro lo stigma sociale il 10 ottobre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale (World Mental Health Day), un’occasione per portare all’attenzione del pubblico un aspetto diverso relativo alla salute mentale. “Salute mentale in un mondo diseguale” (Mental Health in an Unequal World) è il tema scelto quest’anno, proprio perché persiste una disparità di trattamento e di qualità dell’assistenza fornita tra chi soffre di malattie mentali e chi di altre patologie.
Combattere lo stigma è ancora oggi nel 2021 una delle azioni principali che occorre fare per cercare di combattere contro tutte le problematiche di salute mentale
“Il 10 ottobre una giornata importantissima”, spiega a Senti chi parla Francesca Merzagora, fondatrice e presidente O.N.Da – Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna. “Sul tumore della mammella, ad esempio, tanto è stato fatto proprio per superare lo stigma perché un tempo le donne, soprattutto al sud, si vergognavano di questa patologia. Ecco noi dobbiamo portare la salute mentale a essere considerata come un problema di salute. Come Fondazione O.N.Da il 10 ottobre di ogni anno promuoviamo un open day dedicato alla salute mentale coinvolgendo ospedali particolarmente attenti alla salute femminile affinché possano offrire servizi gratuiti: dalla somministrazione di test per valutare la propensione al rischio di sviluppare depressione, all’organizzazione di convegni e momenti informativi”.
Fermare lo stigma per migliorare la salute globale
“Combattere lo stigma è ancora oggi nel 2021 una delle azioni principali che occorre fare per cercare di combattere contro tutte le problematiche di salute mentale, in particolare della depressione”, continua Merzagora. Lo stigma in salute mentale, infatti, non è solo un problema interpersonale, ma definisce i contorni di una vera e propria crisi sanitaria: chi soffre di un disturbo della mente è meno propenso a cercare un consulto con un medico; le persone con malattie mentali gravi muoiono anche decenni prima di quanto dovrebbero, a causa non dell’aumento dei suicidi o delle lesioni, ma anche per la scarsa salute fisica causata dagli effetti collaterali dei farmaci, combinati con fattori legati allo stile di vita come il fumo, la mancanza di esercizio fisico e una dieta inadeguata. Lo stigma, inoltre, determina anche uno scarso accesso alle cure per chi soffre di una malattia mentale: dallo screening per il cancro, ai ricoveri ospedalieri per i diabetici, alla gestione dell’ipertensione, l’assistenza sanitaria che ricevono le persone con malattie mentali è spaventosamente scarsa rispetto a quella di cui avrebbero bisogno.
Lo stigma è sì alla base anche di questa disparità, ma è anche l’elemento che inibisce la doverosa indignazione che dovrebbe muoverci all’azione: l’entusiasmo politico, la raccolta di fondi, la disponibilità e il supporto per i servizi locali, la ricerca e la pratica clinica orientati ad abbattere lo stigma.
Questo articolo fa parte di una serie dal titolo “Mind the GAP. Che genere di Salute Mentale?”, un progetto di Think2it realizzato con il supporto di