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Restare aggiornati è complicato: ecco cosa il medico deve sapere


“Se soffriamo un peso eccessivo per la troppa informazione e per l’ansia ansia collegata all’incertezza, tendiamo a favorire senza ragione le informazioni acquisite di recente perché è più probabile che ci vengano in mente – un’euristica nota come bias di disponibilità. Potremmo pensare: «Ho sentito ieri un collega in Italia che mi ha detto di avere una paziente con un problema di ossigenazione dovuto a coaguli nel polmone», portandoci a decidere: «Adesso somministrerò i trombolitici».” Chi scriveva nell’estate scorsa così erano due clinici della Harvard Medical School, sul New England Journal of Medicine, e il punto intorno al quale si concentrava la loro attenzione era ancora una volta l’incertezza: una parola chiave che ci sta guidando lungo questa riflessione sulla preparazione del medico al tempo della pandemia. Ivry Zagury-Orly e Richard M. Schwartzstein accennavano al confronto con colleghi italiani che, nei primi mesi della crisi sanitaria, è stato davvero molto intenso per molti medici statunitensi. Che tipo di sponda avranno trovato gli internisti di Boston nei loro colleghi nella penisola?

Ogni anno, più di 1 milione di pubblicazioni scientifiche in campo biomedico vengono inserite su Pubmed: circa due articoli al minuto. Tuttavia, tra queste, solo una piccola minoranza può definirsi utile o capace di orientare diversamente la pratica medica. Questi numeri – proposti da Nature nel 2016 e che erano già allarmanti allora – sono stati travolti dall’intensità delle pubblicazioni prodotte negli ultimi 15 mesi.

“Dato che, per motivi di tempo, non è possibile leggere ogni nuovo articolo scientifico, diventa necessario imparare a filtrare le pubblicazioni sulla base del loro valore in termini di metodo e contenuto, prima ancora che di risultato”, spiega a Senti chi parla Camilla Alderighi, medico di Firenze. “La capacità di valutazione critica del medico è un’abilità che, al minimo, dovrebbe essere insegnata all’università. Purtroppo, in Italia, abbiamo ancora molto da lavorare: un’indagine condotta nel 2018 su 40 corsi di laurea in Medicina, ha mostrato come un curriculum di tipo «evidence-based practice» fosse presente solo in otto di questi. Inoltre, nella maggioranza di questi corsi, i concetti della medicina basata sulle prove venivano introdotti attraverso iniziative locali, seminari o letture occasionali, piuttosto che attraverso un’educazione di tipo sistematico.”

Anche i pazienti possono essere buoni maestri.

Nei post precedenti di questa serie (qui e qui), abbiamo cercato di capire anche l’importanza di chi – per maggiore esperienza o per un riconosciuto ruolo di guida – può svolgere il ruolo di orientamento nei confronti dei colleghi. “Sì, oltre a un’educazione sistematica alla valutazione critica delle prove scientifiche, è cruciale avere mentori che rappresentino un riferimento e un esempio”, conferma il medico Raffaele Rasoini, “sia per discutere i risultati degli studi sia per diventare consapevoli e saper gestire l’incertezza che sovente scaturisce nel momento in cui pensiamo di applicare i risultati degli studi ai pazienti reali. Avere buoni maestri dovrebbe aiutare non solo a conoscere le regole, ma soprattutto a sapere quando, perché e come trasgredirle. I buoni maestri sono anche i pazienti, i cui valori e scelte possono divergere profondamente dalle indicazioni degli studi o delle raccomandazioni promosse nelle linee guida.”

Volendo andare oltre, per un medico l’attitudine alla valutazione critica dovrebbe e potrebbe iniziare anche parecchio prima dell’università. Proprio Alderighi e Rasoini sono i promotori di un programma che mira a replicare anche nel nostro Paese delle esperienze di grande valore condotte in altri contesti: “Esistono gruppi di ricerca che hanno dimostrato la capacità dei bambini della scuola primaria di acquisire concetti di valutazione critica sui trattamenti per la salute con le giuste risorse didattiche. Iniziare ad avere un approccio critico ai contenuti scientifici fin da giovani pone le basi per raffinare questo stesso approccio con l’avanzamento del curriculum formativo, sia come futuri medici che come potenziali pazienti.”

Quindi: il disorientamento per la sovrabbondanza di letteratura scientifica e la molteplicità delle fonti di informazione contribuiscono a disegnare uno scenario che offre delle opportunità ma che pone problemi di non facile soluzione, tra cui – e ne abbiamo già accennato – la disomogeneità nella preparazione dei professionisti sanitari. Disomogeneità che possono caratterizzare territori lontani tra loro ma che si possono incontrare anche a distanza di pochi passi di un corridoio d’ospedale. Come ci si sente quando ci si accorge delle lacune nell’aggiornamento di un collega? Prima ancora: è una cosa che capita o è infrequente? Cosa si fa in questi casi? “Accorgersi di non sapere è un’esperienza quotidiana, sia per noi stessi che per i nostri colleghi – risponde Camilla Alderighi – e il problema subentra non tanto quando non sappiamo, quanto piuttosto quando non ne siamo consapevoli, o peggio, quando rimaniamo ancorati ad un sapere inadeguato per i motivi sbagliati. Anche in questo caso, è dirimente l’attitudine critica: colmare una lacuna o aggiornare un’informazione che si credeva di padroneggiare grazie a un collega può essere un ottimo insegnamento e anche l’inizio di un’interazione professionale fruttuosa, ma richiede prima di tutto l’apertura al confronto e al dialogo da entrambe le parti e la messa da parte della hubris che talvolta contraddistingue, in ambito medico, i rapporti tra pari.”

Nel momento in cui medici, infermieri o farmacisti che lavorano insieme percepiscono un’asimmetria di competenze è evidente che la risposta – forse ancor prima che individuale – debba passare attraverso progetti di aggiornamento promossi e governati dall’organizzazione. “L’impalcatura della formazione aziendale è fortemente strutturata e regolamentata e come tale diviene rigida e scarsamente flessibile”, ci dice Fabio De Iaco, medico dirigente di un pronto soccorso a Torino. “La stesura dei piani annuali e la rilevazione dei fabbisogni formativi frequentemente si rivelano essere l’obiettivo piuttosto che lo strumento. Credo però che la questione sia più generale e coinvolga l’intera programmazione aziendale: è un problema di obiettivi. In un sistema aziendale come quello che ci siamo dati, l’obiettivo della qualità, che pure dovrebbe essere ovvio, nella massima parte dei casi risulta soffocato da esigenze che, sacrosante e inevitabili, non c’entrano nulla con la qualità. L’esempio più evidente sta nella gestione del processo di budgeting, che dovrebbe essere lo strumento di governo e orientamento centrale nelle aziende e che dovrebbe vedere nella programmazione della formazione orientata agli obiettivi un’arma fondamentale, mentre viene spesso ridotta a nota a piè di pagina in documenti che sono sostanzialmente solo economico-organizzativi. È l’intera applicazione del modello del budget a dover essere ridiscussa, nel momento in cui l’originale natura bidirezionale del processo (dall’alto al basso, ma anche viceversa) diventa monodirezionale (solo top-down) relegando le esigenze e il ruolo dei clinici (tra cui la sacrosanta formazione) alla marginalità.”

Si pone un problema di eticità della formazione.

De Iaco così conclude: “Del resto non si può certo pensare che la formazione continua del clinico venga garantita esclusivamente dalla formazione aziendale: si pone un problema che meriterebbe una trattazione approfondita, quello della qualità, dell’efficacia e prima ancora dell’eticità di un mercato della formazione che si è venuto a creare e che abbiamo lasciato crescere negli anni, parificando tutti gli attori coinvolti in un sistema in cui l’unico parametro preso in considerazione sembra essere il numero dei crediti Ecm (Educazione continua in medicina, ndr) offerti. La parola mercato non è certo usata per caso.” Mercato: si continua ad avere un po’ di pudore ad accostare questo termine alla professione di chi lavora nell’assistenza: «prendersi cura» dovrebbe sintetizzare un insieme di attività al riparo da tentazioni di tipo economico. La prudenza nell’uso di questa parola caratterizza anche il pregiudizio positivo nei riguardi del lavoro delle riviste scientifiche: si pensa a queste redazioni come ad ambienti silenziosi popolati da redattori operosi e anziani medici riflessivi. In realtà il giro d’affari dell’editoria scientifica è di circa 25 miliardi di dollari l’anno di cui quasi la metà arriva dalle riviste. Un ultimo dato: Elsevier – la più grande casa editrice scientifica del mondo, editore del Lancet e di altre migliaia di periodici – fa il 37 per cento di profitto sugli investimenti: Google arriva al 26 per cento. L’editoria scientifico-tecnica è uno dei settori produttivi a più alto valore aggiunto e l’equilibrio tra cultura e mercato propende quasi sempre a vantaggio del secondo elemento.

Molti medici – e anche tanti giornalisti – credono che quello che leggiamo in un trial pubblicato su una delle riviste più note, magari presentato contemporaneamente a un grande evento congressuale e precocemente inserito in linee guida internazionali debba avere, a seguito di questo iter, un notevole carico di credibilità e affidabilità. Ma non è sempre così. “Un buon numero di studi pubblicati su riviste prestigiose presenta notevoli limiti, metodologici e di contenuto, che in ultima analisi indeboliscono e rendono vana l’applicazione dei risultati nel mondo reale”, spiega Raffaele Rasoini. “È noto, inoltre, come solo una minoranza delle raccomandazioni di tante linee guida sia basata su prove scientifiche di qualità elevata, mentre una parte importante di raccomandazioni si basi invece sulle opinioni personali della maggioranza dei membri di un panel, membri che spesso hanno conflitti di interesse finanziari con le aziende, l’impiego dei cui farmaci viene promosso nelle linee guida stesse. Leggere più linee guida provenienti da fonti diverse su uno stesso argomento può essere illuminante per comprendere come si possano raggiungere conclusioni e raccomandazioni anche molto diverse interpretando la stessa base di evidenze scientifiche. Quindi, un primo passo del medico è comprendere come l’attuale sistema abbia dei limiti e come «prendere per buono» quello che si trova nei mainstream trial o sulle linee guida non sia sempre una buona idea. Insomma, imparare ad essere «skeptic first» è il primo passo per allontanarsi dal pensiero convenzionale in medicina, ed è forse la transizione più difficile, dal momento che, come sottolineato sopra, i medici in Italia non ricevono un’educazione sistematica alla valutazione critica della letteratura scientifica. Voltarsi dall’altra parte è certamente più facile: raccogliere passivamente le informazioni luccicanti e semplificate che arrivano dalle grandi riviste o dalle società scientifiche internazionali è certamente più semplice, oltre che meno foriero di rischi e incertezze.”

Da dove iniziare? Riviste e social media per il confronto tra pari

Chi decide di prendere la strada più tortuosa deve scegliere il sentiero da imboccare e anche su questo Camilla Alderighi e Raffaele Rasoini sono d’accordo: “Una volta divenuti scettici, il passaggio seguente è imparare un processo di selezione delle informazioni attraverso cui individuare gli articoli scientifici in grado di innescare un cambiamento della nostra pratica clinica che migliori la quantità e/o la qualità di vita dei nostri pazienti o la qualità del nostro lavoro. È un processo le cui fondamenta non si trovano in un singolo libro o serie di articoli scientifici (anche se ce ne sono di validi) ma che prevede, da parte del medico, un percorso di apprendimento, che passa attraverso alcuni livelli e che, nel momento in cui diventa un’abitudine consolidata, non occupa neanche una quantità eccessiva di tempo”.

Concretamente, come fare? “Un punto di partenza può essere selezionare gli articoli usciti sulle principali riviste di medicina generale (BMJ, JAMA, New England Journal of Medicine, Lancet) consultando il sito web il giorno della settimana di uscita degli articoli online. Il primo livello, quindi, è il triage di articoli che riguardano temi di nostro interesse. Ciò consiste semplicemente nella lettura dell’abstract degli articoli selezionati, lettura che deve procedere attraverso alcune domande/filtro: per esempio, sulla tipologia di studio (prospettico/retrospettivo, randomizzato/osservazionale), sull’ampiezza del campione (quanti pazienti? Mono o multicentrico?) sulla tipologia di pazienti inclusi (affini a quelli della mia pratica quotidiana?), sul trattamento usato nel gruppo di controllo (adeguato?), sugli end point dello studio (surrogati o clinicamente importanti?), sull’esplicitazione e tipologia di effetti avversi del trattamento, sull’eventuale presenza di conflitti di interesse, sulla magnitudine dell’effetto del trattamento e così via.

Se andiamo a selezionare gli articoli con questo sistema, solo pochissimi sopravviveranno a quello che sarà il secondo livello, ovvero la lettura dell’articolo per intero. Una strage, insomma. Ma una volta selezionato e letto un articolo? “A questo punto diviene necessario sapere cosa ne pensano altre persone”, ci dice Camilla Alderighi. “Uno strumento utilissimo per i medici, oggi, sono i social media, che, se usati come piattaforma di confronto aperto e rispettoso, permettono anche ai medici non accademici di rimanere aggiornati sulla letteratura scientifica. Attraverso Twitter, per esempio, è possibile accedere a tweetorial o commenti di valutazione critica dopo pochissimi giorni o pochissime ore dalla pubblicazione di uno studio. Questo rende enormemente più snello e veloce il dibattito scientifico rispetto, per esempio, alle «lettere al direttore» che spesso vengono pubblicate molto tempo dopo lo studio e hanno quindi una risonanza minore nell’alimentare la discussione intorno a un tema.

Sempre attraverso Twitter è possibile accedere a risorse più strutturate, come blog o podcast di sintesi critica della letteratura recente: per esempio, riguardo alla cardiologia, il podcast di John Mandrola, This week in cardiology, è un appuntamento settimanale fisso e una fonte di aggiornamento preziosa. Altre fonti strutturate che ci sentiamo di consigliare sono il sito Students for best evidence e Therapeutic Initiative.” Qualcuno sostiene che seguire il confronto sui social sia dispersivo e poco produttivo: è così? “Nel caso di Twitter, con il tempo si impara a distinguere il valore di alcuni commenti rispetto ad altri e a crearsi una vera e propria rete di persone da seguire, non tanto, però, per avvalorare pedissequamente ogni loro opinione (altrimenti perderemmo la patente di scettici!) quanto piuttosto per avere un feedback delle opinioni che noi stessi ci siamo fatti dalla nostra valutazione critica in una sorta di tutoraggio indiretto e a distanza. Non dimentichiamoci, però, del rischio sempre presente del confirmation bias, ovvero il rischio di ricercare conferme in persone che hanno un’elevata probabilità di avere la nostra stessa visione.”

L’analisi del proprio percorso di aggiornamento offerta da Alderighi e Rasoini ci riporta ad una delle distinzioni che informavano i primi passi della medicina delle prove, quella tra background questions e foreground questions: al primo tipo di interrogativo avrebbe dovuto dare risposta un aggiornamento costante e sistematico mentre al secondo ordine di domanda solo una ricerca puntuale può offrire riscontro. “Certamente, l’aggiornamento può riconoscere due input principali: il primo è la necessità di mantenersi al passo con le nuove evidenze scientifiche, il secondo è più specifico ed è l’aggiornamento basato sul singolo paziente. Nella nostra esperienza, capita quasi quotidianamente che non riusciamo a rispondere sul momento a un quesito clinico o che non sia immediatamente evidente il percorso più giusto per un paziente. In questi casi, preferiamo differire la risposta e dedicarci ad una ricerca in letteratura. Questa è una delle dimensioni più stimolanti dell’aggiornamento, perché è strettamente connessa alla persona di cui ci stiamo occupando. Tantissimi insegnamenti e tanta dell’esperienza che abbiamo raccolto in questi anni deriva da questo tipo di ricerca. Questa è, secondo noi, la dimensione più privilegiata e insieme più connessa all’essere medico, ovvero l’intersezione tra il sapere teorico (la ricerca delle migliori evidenze) e la pratica (il percorso decisionale di cura condiviso). È nell’ambito di questo specifico contesto che possiamo toccare con mano sia quanto sia importante conoscere l’alfabeto della metodologia e quanto al tempo stesso l’alfabeto rappresenti spesso l’inizio di un percorso ben più farraginoso e complesso all’interno del quale provare ad orientarsi tra incertezza, valori e decisioni. Ecco, l’altra faccia dello scetticismo riguarda anche la piramide aurea delle evidenze perché conoscere una regola e applicarla a esseri umani dotati sia di variabilità biologica sia di valori significa anche sapere quando, perché e come trasgredirla.”

Per un medico, un infermiere, un farmacista restare aggiornati è davvero complicato: è necessario imparare a farsi le domande giuste, conoscere dove cercare risposte e sapere interpretarle, quali voci ascoltare per valutarle criticamente. Ma anche – se non soprattutto – conoscere se stessi e conservarsi capaci di considerare i propri bias, quelli che fanno spesso sottovalutare i potenziali benefici di un intervento e sottovalutare i rischi di una terapia. I principi della medicina delle prove non sono mai stati così importanti e bisognerebbe che la risposta alla pandemia fosse basata sulla ricerca e non sull’emotività, sulle pressioni politiche o su quelle economiche. Perché ciò accada è indispensabile fare affidamento su professionisti capaci di coltivare le proprie competenze: e se fosse anche qui una questione di pollice verde?

Questo post è il terzo di una serie dedicata all’aggiornamento del medico. La prima uscita puoi leggerla qui Chi ci cura è aggiornato?, e la seconda qui Aggiornarsi ai tempi del caos e dell’incertezza.