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Dal pediatra al medico di famiglia: gli adolescenti chi li cura?


“Esiste una sorta di terra di mezzo, che è l’adolescenza, piena di bisogni di salute peculiari ma che le varie articolazioni del sistema sanitario non sembrano in grado di intercettare in maniera sistematica”. Così comincia – o quasi – la guida alla transizione dal pediatra di libera scelta al medico di medicina generale che alcune delle principali società scientifiche italiane in questo ambito hanno redatto. E già il fatto che ci sia bisogno di una guida mostra quanto sia delicato questo passaggio di presa in carico e quanto sia alto il rischio che si trasformi in una zona di vuoto dell’assistenza sanitaria.

“In effetti è una zona grigia ”, conferma Cosimo Nume, presidente dell’Ordine dei medici di Taranto e Responsabile della comunicazione della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici e Odontoiatri (Fnomceo). “Perché il passaggio dall’assistenza del pediatra a quella del medico di medicina generale coincide con un’età in cui c’è da una parte un’idea nei genitori di aver superato la fase critica della crescita dei propri figli, e dall’altra un rintanarsi degli ex bambini adesso adolescenti all’interno di una sfera di intimità e di preclusione nei confronti degli altri. Questo corrisponde magari anche al perdere, proprio in una fase critica, la consuetudine dell’incontro e quindi anche la consuetudine dell’ascolto.

Ma quand’è che questo passaggio dovrebbe avvenire? Secondo la legislazione attuale, fino al sesto anno di età è obbligatoriamente il pediatra la figura competente. E salvo altra scelta dei genitori, resta tale fino al compimento del 14° anno di età. Entro questa data si può chiedere la proroga fino al 16° anno per motivi particolari. Stando a quanto riportato nella guida sopracitata, circa il 79 per cento dei bambini tra i 7 e i 14 anni è assistito dal pediatra di famiglia, ma solo un adolescente su due tra gli 11 e i 14 anni.

Un passaggio non semplice, con qualcosa che rischia di perdersi lungo la strada

“Il momento della transizione è un momento non facile per la famiglia, per gli adolescenti in generale, perché con il proprio pediatra spesso hanno stabilito un rapporto molto stretto”, ci spiega Paolo Becherucci, presidente della Società italiana cure primarie pediatriche. Per questo quasi sempre il pediatra garantisce comunque una certa disponibilità se il giovane o la famiglia hanno bisogno di un consiglio o di un consulto. È poi un passaggio da qualcuno che conosce tutta la nostra storia clinica a qualcuno che non ci ha mai visto, e talvolta qualche informazione rischia di perdersi per strada, spiega Renato Cutrera, responsabile del dipartimento Malattie respiratorie e broncopneumologia dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Alcune volte i vuoti di informazioni riguardano passate malattie e condizioni minori e possono essere dovuti al fatto che il passaggio non è ben codificato ed è variabile da regione a regione (“Anche se si spera che con il fascicolo sanitario elettronico si possa ovviare almeno parzialmente a tutto questo”, sottolinea sempre Cutrera), e quasi del tutto a carico del pediatra.

“Il medico di medicina generale deve avere delle informazioni sintetiche perché non ha probabilmente nemmeno il tempo di mettersi lì a riportare nella propria cartella tutte le informazioni”, prosegue Becherucci. “Penso che un dato ormai inderogabile sia passare tutta la copertura vaccinale, perché oggi anche il medico di medicina generale vaccina. Dobbiamo passargli informazioni su malattie, problematiche importanti che il paziente ha avuto, se ha fatto esami particolari, se segue terapie particolari e secondo me dobbiamo passargli anche dei dati rispetto agli aspetti dei disturbi dell’apprendimento, delle problematiche del neurosviluppo, le problematiche di comportamento, ansia, perché purtroppo oggi queste cose sono molto più diffuse di una volta”.

Molto spesso si ritiene questo passaggio come un passaggio puramente burocratico.

Tra le informazioni che rischiano di perdersi, come citato da Becherucci, ci sono le vaccinazioni, soprattutto quelle non fatte. Queste, nell’infanzia, sono tappe chiave, ben codificate e integrate nella routine, e che il pediatra non manca di portare all’attenzione dei medici. C’è un equivalente dell’anagrafe vaccinale, quindi tutte le vaccinazioni effettuate dovrebbero essere registrate; ma se queste tappe non sono raggiunte sotto la supervisione del pediatra non sempre vengono recuperate. Esistono poi delle vaccinazioni dedicate a questa fascia di età come quello contro il papilloma virus o quello contro la meningite B che il pediatra rischia di lasciare al medico di medicina generale per competenza di età, ma che il medico ritiene ancora competenza del pediatra, e di cui la famiglia non ha grande consapevolezza.  Questa incertezza è stata manifesta in questo anno di covid-19 in cui, con l’attenzione fissa su altro, alcune di queste campagne sono rimaste indietro. “Credo che il recupero delle dosi di vaccinazione sia una delle priorità che deve essere sempre considerata indipendentemente dal passaggio e dalla transizione dal pediatra al medico di medicina generale”, sottolinea Cutrera, “e quindi invito tutti i genitori a vedere se il calendario vaccinale del ragazzo sia completo”.

“Credo che in qualche maniera il covid ci stia facendo questo regalo: ci sta insegnando quanto è importante avere in ogni momento presente la storia vaccinale dei nostri pazienti e laddove è possibile mettersi in moto anche per controbilanciare quell’esitanza vaccinale che nel nostro Paese non è molto diffusa, ma che può lasciare delle sacche di assenza di copertura e non portare all’eradicazione di virus pericolosi”, spiega invece Nume.

Il momento della transizione è un momento non facile per la famiglia, per gli adolescenti in generale, perché con il proprio pediatra spesso hanno stabilito un rapporto molto stretto

Ad accrescere il rischio che informazioni importanti si perdano nel passaggio è anche il ritardo con cui spesso si presenta il “nuovo paziente” al medico di medicina generale. “Il perfetto sconosciuto che di solito si presenta al medico di medicina generale non è più un ragazzo di 14 -16 anni seguito benissimo e con grande professionalità dal pediatra fino a quel momento ma di solito un diciottenne, un ventenne che magari ha qualche problema oppure ha bisogno di un certificato di idoneità all’attività sportiva”, prosegue Cosimo Nume. “Questo significa che si rischia di perdere l’occasione di riscontrare precocemente, per fare qualche esempio, un problema cardiologico, magari minore, oppure patologie della colonna vertebrale che proprio in quel periodo vanno individuate e, se necessario, opportunamente affrontate e corrette. È anche il periodo in cui ci si può trovare di fronte a delle anomalie nello sviluppo dei caratteri sessuali di cui l’adolescente non parla, per vergogna o per altri motivi con i propri genitori. E questo è un altro aspetto del grigiore di questa zona che ovviamente può richiedere poi degli interventi più drastici che non se fossero attuati in seguito a un monitoraggio continuo della fisiologica evoluzione da bambino ad adolescente”.

Un discorso diverso quando l’adolescente ha un problema cronico

Quando coinvolge un adolescente che ha un problema cronico, il passaggio non solo è diverso ma anche molto più complesso. “Con il migliorare delle cure in età neonatale, con la bravura dei nostri neonatologi e con la possibilità di avere una medicina molto tecnologica, sopravvivono dei bambini che hanno delle patologie croniche. Possono essere molto semplici o relativamente semplici come l’asma, alcune cardiopatie non gravi, oppure delle malattie renali o delle sindromi genetiche come la sindrome di down. Ancora, possono essere dei bambini medicalmente complessi, quelli che magari sopravvivono con l’aiuto di un ventilatore polmonare, con una gastrostomia, con delle necessità anche di deambulazione non possibile e così via. Di questi soggetti ne abbiamo circa diecimila in tutta italia che possono sembrare numeri relativamente piccoli, ma sono un numero importantissimo”, ci racconta sempre Cutrera.

Per questi ragazzi il passaggio dal pediatra al medico di famiglia può essere ritardato fino a 16 anni, in modo da garantire il più possibile una continuità nell’assistenza. Tuttavia questo non risolve molte criticità. Come spiega la guida cui abbiamo accennato in apertura, “questi pazienti hanno bisogno di risorse, di integrazione di conoscenze e professionalità, infinitamente maggiore rispetto ai pari età non affetti da patologie croniche o disabilità. Si tratta di pazienti che, se non correttamente supportati con un programma di transizione, nel 40-50 per cenyo dei casi possono interrompere o subire un certo grado di discontinuità nelle cure, con rischio di ripercussioni serie sulle loro condizioni di salute”.

C’è necessità di uno sforzo a livello regionale e delle autorità sanitarie per cercare più possibile di avere dei percorsi che permettono il passaggio senza far correre rischi ai pazienti”, spiega Renato Cutrera. “In pratica in molte regioni d’Italia, questi ex bambini con patologie gravi croniche continuano a essere seguiti negli ospedali pediatrici e questa non è forse la soluzione migliore, oppure vengono seguiti dal mondo della medicina dell’adulto con dei genitori che seguono varie strade senza che ci sia un percorso strutturato”.

Come dovrebbe essere dunque questa transizione?

Se l’assenza di una codifica condivisa, di indicazioni chiare rende di fatto questo passaggio una zona grigia c’è qualcosa che si può fare per ridurre invece la soluzione di continuità nell’assistenza sanitaria dei ragazzi. “Molto spesso si ritiene questo passaggio come un passaggio puramente burocratico”, spiega Nume. “È invece uno dei momenti in cui la burocrazia dovrebbe cedere il passo, magari, ad una campagna informativa che convinca i genitori a presentare il ‘nuovo’ paziente al suo ‘nuovo’ medico, per avviare un percorso di crescita più che un percorso di cura”.

“Dovrebbe essere una transizione concordata, organizzata e temporizzata. Queste tre parole chiariscono come deve avvenire la transizione, ovviamente in modo condiviso. Bisogna che ci sia una condivisione, dove la condivisione non è solamente quella tra i due professionisti ma è una condivisione attraverso la famiglia e attraverso il paziente”, conclude Cutrera.

 

 

Grazie a Rebecca De Fiore per l’intervista a Paolo Becherucci.

Questo articolo è stato realizzato con il contributo incondizionato di   . Lo sponsor non è stato coinvolto nella preparazione dei contenuti, della scelta delle fonti e dei clinici che sono stati ascoltati;