Ricordiamo tutti la meravigliosa parentesi di bellezza che la natura ha compiuto poco più di un anno fa, riappropriandosi dei suoi spazi. Ne erano un esempio le acque cristalline dei canali di Venezia, le lepri nei parchi di Milano o i delfini nel porto di Cagliari. Purtroppo, non è durata a lungo, già oggi quelle scene sono appunto un ricordo. Inoltre, il 2020 doveva anche essere l’anno dell’entrata in vigore, in Italia, della plastic tax, l’imposta sul consumo di manufatti in plastica monouso, posticipata prima a gennaio e poi a luglio di quest’anno. Eppure proprio ora sarebbe stata quanto mai opportuna. Perché al consueto e crescente aumento della plastica si sta aggiungendo un’altra minaccia. Secondo gli autori di uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology, si stima che l’umanità stia utilizzando 129 miliardi di mascherine facciali usa e getta ogni mese, ovvero 3 milioni al minuto. Soltanto in Italia, la quantità di rifiuti provenienti dai dispositivi di sicurezza ogni giorno è pari a circa 410 tonnellate, due volte il peso della Statua della Libertà.
Nonostante i dispositivi di sicurezza siano essenziali nel mitigare la diffusione di Sars-CoV-2, oggi sappiamo che il loro aumentato consumo sta aggravando il già serio problema peggiore dell’attuale inquinamento causato dalla plastica. Questo perché le mascherine, nella maggior parte dei casi, sono rifiuti non riciclabili ma soprattutto perché se disperse nell’ambiente possono generare particelle microscopiche nell’arco di poche settimane che progressivamente si frammentano in nanoplastiche più piccole di 1 µm – un millesimo di millimetro. L’aspetto più preoccupante è tuttavia un altro, come spiegano i ricercatori Elvis Genbo Xu dell’Università della Danimarca e Zhiyong Jason Ren dell’Università di Princeton in un commento pubblicato su Frontiers of Environmental Science & Engineering. Dal loro studio emerge infatti che le mascherine di ultima generazione “sono realizzate direttamente con fibre di plastica di dimensioni nanometriche”, con uno spessore che varia da 1 a 10 µm. Quindi, “nel momento in cui vengono abbandonate nell’ambiente possono rilasciare microplastiche molto più facilmente e velocemente della plastica di uso comune, come i sacchetti usa e getta”.
Verso l’oceano
Quando non vengono raccolte e smaltite correttamente, le mascherine possono essere trasportate dalla terra all’acqua dolce e agli ambienti marini tramite le correnti dei fiumi, quelle oceaniche, il vento e gli animali (quando vengono intrappolati oppure quando le ingeriscono). Genbo Xu, tossicologo dell’Università della Danimarca, ricorda nello studio che “come altri detriti di plastica, le maschere usa e getta possono rilasciare sostanze chimiche nocive come bisfenolo A, metalli pesanti e microrganismi patogeni, che accumulandosi potrebbero avere degli impatti negativi indiretti su piante, animali e esseri umani”.
I nostri oceani sono stati inondati da circa 1,56 miliardi di mascherine per il viso.
Secondo l’ultimo rapporto di OceansAsia, organizzazione per la conservazione marina che si dedica alle indagini e alla ricerca sui crimini contro la fauna acquatica, nel corso del 2020 “i nostri oceani sono stati inondati da circa 1,56 miliardi di mascherine per il viso”. Questa mole di rifiuti è “solo la punta dell’iceberg”, commenta sul sito dell’organizzazione Teale Phelps Bondaroff, co-fondatore di OceansAsia e autore principale del documento, che precisa: “Le tonnellate di mascherine (tra le 4680 e le 6240) sono solo una piccola frazione degli 8-12 milioni di tonnellate di plastica che entrano nei nostri oceani ogni anno”. La Statua della Libertà è troppo piccola per portare un esempio delle tonnellate.
Le mascherine, prosegue il portavoce di OceansAsia, “entrano negli oceani quando i sistemi di gestione dei rifiuti sono inadeguati o inesistenti o quando questi sistemi vengono sopraffatti a causa dell’aumento dei volumi dei rifiuti”. L’invito che l’organizzazione rivolge alle persone è quello di “indossare maschere riutilizzabili, di smaltirle in modo responsabile e di ridurre il consumo complessivo di plastica” visto che “esistono opzioni riutilizzabili e sostenibili per quasi ogni singolo articolo in plastica monouso”.
Il traffico illecito
Al percorso che affrontano i dispositivi di protezione una volta divenuti rifiuti – e ai fenomeni illeciti che possono determinare seri impatti ambientali e sanitari – guardano con attenzione le agenzie investigative internazionali, come l’Interpol e l’Europol. A tal proposito, Legambiente cita in un documento edito in collaborazione con Unicoop Firenze il punto di vista della prima agenzia, la quale sostiene che: “L’aumento dei rifiuti sanitari dovuti a covid-19 ha sicuramente creato l’opportunità per le organizzazioni criminali di trafficare e smaltire i rifiuti sanitari”.
Per esempio, nei primi mesi del 2020, “una serie di spedizioni di materiale sanitario inviate per essere smaltite illegalmente sono state registrate in India”, riporta Legambiente, che aggiunge: “Le attività di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti indicano un coinvolgimento piuttosto certo del crimine organizzato”. Inoltre, secondo quanto riportato da Legambiente, sappiamo che “in Thailandia, invece, è finita sotto inchiesta un’azienda di riciclo che vendeva come nuove maschere usate”. Ancora. In Myanmar, è stato scoperto che “i rifiuti medici in plastica provenienti da un ospedale in Yangon sono stati raccolti illegalmente e mandati ai residenti delle periferie, al fine di essere processati e puliti prima di essere venduti come beni domestici”.
L’aumento dei rifiuti sanitari dovuti a covid-19 ha sicuramente creato l’opportunità per le organizzazioni criminali di trafficare e smaltire i rifiuti sanitari.
Premesso che questa pratica illegale rischia di diffondere malattie e infezioni, il ripetersi di questi casi in Paesi che sono anche tra i principali esportatori di maschere chirurgiche usa e getta “impone la necessità di controlli molto rigorosi nelle fasi di importazione” suggerisce Legambiente.
Per quanto riguarda l’Italia, l’utilizzo di guanti e maschere usa e getta non comporterà, secondo l’Arma dei carabinieri “la delineazione di scenari criminali nuovi e di conseguenza di un modus operandi nuovo, bensì il potenziale peggioramento di quello attuale”. Pertanto, le strutture del Nucleo Operativo Ecologico, come riporta Legambiente, hanno già avviato “attività info-investigative in raccordo con le procure competenti per territorio”.
I rischi per la salute
È noto oramai che i rifiuti, se dispersi, hanno un grave impatto sull’ambiente, mettendo in pericolo la biodiversità, già fortemente sotto pressione. Un altro aspetto da non sottovalutare è l’utilizzo di alcune sostanze chimiche per il trattamento di questi dispositivi. “L’acido perfluoroottanoico (Pfoa) è un agente chimico con proprietà repellenti”, spiega Legambiente. “È stato vietato a livello globale con la Conferenza di Stoccolma per la sua tossicità (colpisce fegato e tiroide) e per la sua capacità di dispersione. A questo divieto c’è però un’eccezione, proprio per il trattamento di prodotti sanitari”. Un altro prodotto chimico che preoccupa molto sono gli ftalati, i quali vengono utilizzati per trattare prodotti in Pvc (come i guanti monouso). Queste sostanze, quando vengono incenerite, rilasciano inquinanti molto tossici e pericolosi come le diossine. Come conferma anche il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, tutte queste sostanze, se disperse nell’ambiente o gestite in maniera scorretta a fine vita, sono causa di un inquinamento molto esteso e pericoloso: possono contaminare falde, suolo e aria.
Non è tutto. Sappiamo che in passato sono state trovate tracce di microplastiche nell’intestino umano e in moltissimi esemplari di mammiferi aquatici. Si aggiunge a questo triste elenco, una ricerca pubblicata in gennaio su Environmental International da un team diretto da Antonio Ragusa, direttore dell’Uoc di Ostetricia e Ginecologia Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli, che ha rilevato frammenti di microplastiche nella placenta di sei donne.
La presenza di queste particelle, affermano i ricercatori, “è spiegata dall’ampio uso di questi composti per colorare non solo i prodotti in plastica”. Infatti, le particelle rilevate nei campioni biologici sono state classificate spesso come pigmenti, largamente usati in un’ampia varietà di cosmetici, per tingere tessuti e in fragranze e deodoranti per ambienti. Altre particelle appartengono alla famiglia dei pigmenti che vengono utilizzati per smalti e colorazione di materiali plastici (come il polipropilene, il “tessuto” più utilizzato per produrre maschere facciali).
L’alternativa
Riprendendo i suggerimenti dell’esperto in tossicologia ambientale Elvis Genbo Xu dell’Università della Danimarca, “un ripensamento delle tre R potrebbe essere molto prezioso” (regulate, reuse, replace): regolamentare (valutazione del ciclo di vita su produzione, smaltimento e decontaminazione), riutilizzare (preferendo maschere lavabili) e sostituire con materiali biodegradabili le mascherine di plastica monouso.
Se continuiamo così, ci aspetta un futuro per nulla lontano in cui negli oceani ci sarà più plastica che pesci.
Tra le alternative biodegradabili che si possono scegliere, esistono materiali a base di fibra di abaca (un parente del banano), di canapa (prodotta anche da un’azienda italiana) e, tra gli altri, materiali a base di nanofibre antibatteriche, come le NavaMask, mascherine biodegradabili frutto di una collaborazione internazionale che ha coinvolto anche una società italiana. Dalla Sicilia arriva anche una mascherina riutilizzabile il cui corpo principale è in gomma termoplastica anallergica, certificata come dispositivo medico con filtro modulabile FFP2-FFP3. Spostandosi verso nord-est, in Emilia-Romagna, scopriamo il progetto di produzione sostenibile e coerente con l’agenda Onu 2030 di Eta Beta, cooperativa sociale che, in collaborazione con Zero Waste Italy e con il supporto scientifico dell’Università di Bologna, ha creato ETA 20, mascherina certificata, etica e sostenibile (qui i dettagli).
Alla conferenza stampa di presentazione di ETA 20 è intervenuta la vicepresidente e Assessore al contrasto alle diseguaglianze e transizione ecologica della Regione Emilia-Romagna, Elly Schlein, che ha dichiarato: “È un progetto bello e importante perché state mettendo in pratica l’Agenda 2030, cioè trovare soluzioni che tengano insieme più sfide: la tutela della salute delle persone e del nostro pianeta attraverso mascherine lavabili e riutilizzabili, in ottica di economia circolare, scegliendo materiali meno impattanti e riducendo la quantità di rifiuti prodotti, con il valore aggiunto che nella cooperativa Eta Beta trovano posto anche tanti lavoratori e lavoratrici fragili, coniugando economia circolare e inclusione sociale”.
Insomma, “ci troviamo di fronte a un bivio”, come afferma Kristin Hughes, membro del comitato esecutivo del World Economic Forum, parlando dell’impatto che la pandemia sta avendo sugli impegni a livello globale per ridurre il consumo di plastica: “Da un lato, se continuiamo così, ci aspetta un futuro per nulla lontano in cui negli oceani ci sarà più plastica che pesci; dall’altro, (seguendo, ndr) un modello sostenibile di vita e di lavoro che creerà un futuro più sano, più equo e più vivibile per tutti”.