Le riviste scientifiche che hanno un’influenza maggiore sull’opinione pubblica e sui comportamenti dei ricercatori e dei medici scelgono la strada della narrazione: “È un effetto è strettamente associato all’identità del giornale: le riviste di maggiore impatto tendono a pubblicare più articoli costruiti con uno stile narrativo e questi articoli tendono a essere citati più spesso. Possiamo dedurre quindi che scrivere in uno stile più narrativo aumenta la diffusione e l’influenza degli articoli sul cambiamento climatico, e forse nella letteratura scientifica più in generale”.
I risultati di uno studio uscito qualche anno fa su una rivista abbastanza nota in ambito scientifico – anche perché ad accesso aperto, “PLoS One” – hanno reso evidente come lo storytelling sia diventato uno strumento molto utilizzato per la disseminazione della scienza. Questo perché chi scrive articoli scientifici si è accorto che riferendo i risultati dei propri studi in maniera narrativa si ottengono risultati migliori rispetto a quelli che si raggiungono con la rendicontazione accademica tradizionale: “Presentare le stesse informazioni in un modo narrativo rende più probabile l’adozione da parte di chi legge delle misure proposte negli articoli: è qualcosa di particolarmente interessante nel contesto delle scienze del clima ma lo è per la letteratura scientifica in generale. Dunque, «il raccontare» è oggi ampiamente riconosciuto come un potente strumento di comunicazione”.
“Presentare le stesse informazioni in un modo narrativo rende più probabile l’adozione da parte di chi legge delle misure proposte negli articoli”
Cosa distingue secondo gli autori un testo narrativo da uno prevalentemente espositivo? La descrizione del contesto, la prospettiva narrativa, un linguaggio capace di parlare ai sensi di chi legge o ascolta, la capacità di suggerire associazioni e di entrare in contatto con chi legge, e infine il riuscire ad attrarre l’attenzione. Andando a vedere più da vicino questi elementi, vediamo che hanno a che fare con l’attenzione a descrivere i contesti nei quali le ricerche sono state svolte; con la presenza di un narratore che in prima persona (singolare o plurale) espone il percorso di ricerca; con testi ricchi di passaggi capaci di suscitare emozioni in chi legge; con le spiegazioni date al lettore delle motivazioni che hanno suggerito di approfondire quell’argomento e di sollecitarlo ad agire, mettendo in atto comportamenti coerenti con gli obiettivi raggiunti nella ricerca. Infine, con la capacità degli autori di collegare le frasi e le parti del testo in modo convincente, persuasivo e fluido. La tendenza a “rendicontare attraverso il racconto” la vediamo ogni giorno: nel successo delle TED talks, nella popolarità di libri su argomenti complessi ma valorizzati da editor particolarmente capaci, nella presenza attiva dei ricercatori sui social media, con le opportunità ma anche i rischi che ne discendono. Storytelling e ricerca scientifica: una relazione delicata e scivolosa, però, soprattutto in questi anni in cui la credibilità della scienza è ai minimi termini. Una relazione che presuppone accettare la sfida del dialogo perché la narrazione non è mai unidirezionale e impone non soltanto il confronto ma ancora di più la capacità di ascolto, come spiegava il critico d’arte e scrittore John Berger: “If I’m a storyteller it’s because I listen. For me, a storyteller is like a passeur who gets contraband across a frontier”. Se vuole comunicare dialogando anche con gli interlocutori più difficili, il ricercatore deve sconfinare e, soprattutto, essere pazientemente capace di ascoltare, ricordando che le proprie certezze – anche quelle più robuste – potranno sempre essere messe in discussione.
“Se sono uno storyteller è perché ascolto”
Amiamo le storie perché ci rassicurano, ci confortano nella loro prevedibilità. A «scoprirlo» è stato forse Vladimir Propp che aveva individuati schemi e costanti che si ripetono nella struttura delle fiabe tradizionali. Lavoro di analisi che è stato successivamente attualizzato dallo scrittore statunitense Kurt Vonnegut jr., che dedicò alla “forma delle storie” la propria tesi di laurea in antropologia all’università di Chicago. Tesi che fu rifiutata perché troppo divertente per essere presa sul serio. Ma che è diventata un riferimento “cult” negli anni seguenti.
Il grafico seguente è uno dei plot ricorrenti, una delle «forme delle storie» raccontate da Vonnegut. Anzi, è forse la forma per eccellenza, quella caratterizzata dall’entusiasmo iniziale, seguito dalla sfiga cosmica (Vonnegut la definisce con l’espressione the man in the hole) e dal riscatto finale. Ma la letteratura scientifica non segue – forse “da sempre” – dei modelli letterari che non solo aiutano chi scrive a seguire una traccia più accettabile da chi deve giudicare il contenuto, ma rassicurano tutti gli attori della comunicazione della ricerca?
Guardiamo la seconda figura: è una delle più classiche «forme» delle storie che incontriamo sfogliando una rivista scientifica. Spesso si inizia con la sorpresa per quanto ci è capitato: un caso clinico eccezionale, una serie di casi oppure l’evidente necessità di fare il punto su una questione urgente. Salvo poi scoprire – ma sì – che certamente il nostro studio ha qualche limite che non possiamo tacere (the study in the hole), ma dopotutto nessun altro aveva mai descritto una cosa di questo tipo. Non è vero? Il più delle volte si tratta di studi superflui, di ricerca inutile. Anzi, utile soltanto a chi la svolge e riceve finanziamenti e, pubblicando, va a caccia di nuovi fondi.
Per rendere tutto più seducente la variante classica è quella improntata al cherry-picking e che Vonnegut disegnerebbe come nella terza figura. Si parte il più delle volte da un «problema» di cui si amplifica la portata. Una malattia inventata (la timidezza degli adolescenti? Il ridotto desiderio sessuale nella donna? Il prediabete? La preipertensione? La premorte?). Si «studia» e si scelgono i risultati più utili a confermare la tesi.
Che dire poi degli studi di cui non vengono resi pubblici i dati? Di quelle ricerche che esitano in oltre 20.000 pagine depositate presso le agenzie regolatorie, che si riducono magicamente alle 6 pagine pubblicate sul “Lancet”? Anche loro rientrano tra i classici, ormai. E il plot è sempre uguale, con due parentesi a chiudere il nulla, come nella quarta figura.
Infine, gli iceberg. Ne è piena la medicina di oggi: malattie enfatizzate, problemi ingigantiti, per cui dovremmo contemporaneamente soffrire di osteoporosi, ipercolesterolemia, diabete… Immancabilmente, i risultati di studi sono modesti e … more research is needed. Sono le mille e una notte del ricercatore biomedico. Si raccontano storie per perpetuare la situazione attuale: richiesta di finanziamenti, ricerca, pubblicazione e ancora via ripetendo lo stesso percorso. Rendicontare la medicina o la scienza è un’attività di storytelling. Anche analizzare dei dati, interpretarli, riferirli non è cosa che riguardi numeri e grafici. È raccontare una storia. Che dev’essere sorretta, però, da un rigore etico che guidi le decisioni. Raccontare la scienza deve servirsi di narrazioni. Ma raccontare la scienza non deve tradursi nel raccontarsi storie. È nel confine tra narratives e stories il delicato equilibrio dell’etica della comunicazione.