Luc Montagnier è morto l’8 febbraio 2022, a 89 anni, all’Hôpital Américain della località francese di Neuilly-sur-Seine. La sua attuale grande esposizione mediatica – in un momento di violente polemiche sul tema della pandemia di covid-19 – ha fatto sì che anche intorno alla sua morte si sia creato dapprima un piccolo “giallo” e subito dopo la conferma ufficiale che siano state diffuse addirittura ipotesi complottiste sulla scomparsa dello scienziato smentite dal fatto che a dare notizia del decesso è stato il suo più stretto collaboratore, Gérard Guillaume, che pur non rivelando per il momento le cause della morte di Montagnier ha riferito al quotidiano “FranceSoir” che “Se n’è andato in pace, circondato dai suoi figli”.
“Se n’è andato in pace, circondato dai suoi figli”
Ma chi era Luc Montagnier? Senza dubbio una figura di grande spicco della comunità medica internazionale. Biologo e virologo, direttore emerito del Centre national de la recherche scientifique e dell’Unità di Oncologia virale dell’Istituto Pasteur di Parigi, fondatore e presidente della World foundation for Aids research and prevention, professore del Queens College di New York fino al 2001, presente nei consigli d’amministrazione di diverse aziende biotech negli Stati Uniti e in Francia. Nella sua lunga carriera ha ricevuto importantissime onorificenze: Cnrs Silver Medal, Rosen Prize of Cancerology (1971), Lasker Award, Légion d’Honneur (1986), Gairdner Award (1987), Gallien Prize (1985), Jeantet Prize, Prize of Japan (1988) King Faisal International Prize (1993), Amsterdam Foundation Prize (1994), Warren Alpert Prize (1998), Prince of Asturias Prize (2000). È stato inserito nel 2004 nella National Invention Hall of Fame. Ma naturalmente la massima onorificenza è stata il Premio Nobel per la Medicina 2008, ricevuto assieme ad Harald zur Hausen (scopritore del papilloma virus, agente patogeno causa del tumore della cervice uterina) e alla collaboratrice e compagna Françoise Barrè-Sinoussi per la scoperta del virus dell’immunodeficienza umana (Hiv, human immunodeficiency virus), meglio conosciuta come Aids (Antibody Immunodeficiency Sindrome).
Anche intorno a questo Nobel però c’è un piccolo mistero. Perché un Nobel nel 2008 per una scoperta fatta ben venticinque anni prima? Perché attorno a questa epocale scoperta si è scatenata una dura battaglia legale accompagnata da violente polemiche. Tutto comincia quando nel 1983 Luc Montagnier assieme ai colleghi Françoise Barré-Sinoussi e Jean-Claude Chermann isola un retrovirus fino ad allora sconosciuto, che battezza provvisoriamente Lav (Lymphadenopathy associated virus) da un campione prelevato mediante una biopsia dal collega Willy Rozenbaum in un linfonodo di un giovane paziente di New York. Lo studio esce sulla prestigiosa rivista “Science”. È questo retrovirus, secondo Montagnier e il suo team, l’agente patogeno che causa la malattia che successivamente diventerà conosciuta in tutto il mondo come AIDS. La scoperta (raccontata con dovizia di particolari in questo articolo di “Scientific American” dallo stesso Montagnier) fu inizialmente accolta con scetticismo ma nel 1984 Margaret Heckler, United States Secretary of Health and Human Services nell’Amministrazione Reagan, annunciò che lo scienziato statunitense Robert Gallo aveva individuato la “probabile” causa dell’Aids, un retrovirus chiamato HTLV-III. Si trattava però dello stesso retrovirus identificato l’anno prima dall’equipe di Montagnier, e a quel punto si scatenò la bagarre su a chi andasse attribuita l’epocale scoperta scientifica – alla quale erano legati anche enormi interessi economici. La disputa giunse a una sorta di compromesso nel 1987, quando Stati Uniti e Francia firmarono un accordo in cui Gallo e Montagnier vennero ufficialmente nominati “co-scopritori” del nuovo virus. Nel frattempo, nel 1986, Montagnier aveva isolato un secondo ceppo del virus Hiv, una variante denominata Hiv2, diffusa maggiormente in Africa, e per questa scoperta aveva vinto il prestigioso premio Albert Lasker.
“Nel momento in cui riceve il Nobel, Luc Montagnier ha 76 anni, è un ricercatore stimato, ricco e influente”
Nel momento in cui riceve il Nobel, Luc Montagnier ha 76 anni, è un ricercatore stimato, ricco e influente. Un membro della comunità scientifica internazionale che ragionevolmente si avvia al tramonto della sua vita, fiero di aver avuto una carriera scientificamente di altissimo livello. Nel 2009 però, la prima sorpresa: il virologo francese pubblica uno studio su una piccola rivista da lui stesso diretta in cui sostiene che il suo team ha rintracciato segnali elettromagnetici a bassa frequenza in campioni d’acqua che – si ipotizza – derivano da frammenti di Dna batterico e/o virale che in qualche modo “marcano” l’acqua dando vita a nanostrutture che potrebbero avere effetti clinicamente importanti nell’uomo e che possono essere individuate, utilizzandole come biomarker di alcune patologie. Il fatto che con lo stesso metodo Montagnier abbia trovato “segnali” che ritiene emessi dal Dna del virus Hiv nel plasma di pazienti trattati con terapia antiretrovirale gli fa anche supporre che il virus possa entrare in una fase diversa, “nascosta” agli strumenti diagnostici comunemente utilizzati. L’ipotesi di Montagnier – per certi versi accomunabile alla celebre “memoria dell’acqua” ipotizzata dall’immunologo francese Jacques Benveniste in un celebre studio del 1988 che però nel 1993 è stato smentito su “Nature” – non trova però conferme da parte di nessun altro team scientifico e peggio ancora dà il via una spiacevolissima vicenda giudiziaria.
Nel 2010 quindi Luc Montagnier, amareggiato, decide di accettare l’invito della Jiaotong University di Shanghai e di trasferirsi in Cina per proseguire le sue ricerche. In un’intervista a “News of the Week” spiega: “Ho trovato questi segnali emessi dal Dna batterico nel plasma di molti pazienti con autismo e anche nella maggior parte, se non tutti, dei pazienti con Alzheimer, malattia di Parkinson e sclerosi multipla. Sembra che i batteri che stiamo rilevando provengano dal microbiota intestinale. Quindi è del tutto possibile che nanostrutture prodotte da batteri intestinali finiscano nel plasma e causino danni al sistema nervoso centrale. Le onde elettromagnetiche ci forniscono un biomarker per testare la presenza di questi batteri, anche quando noi non li rileviamo con le tecniche classiche come la PCR. Curando queste malattie con gli antibiotici, la nostra speranza è di vedere il patogeno scomparire”. Un’ipotesi clinica ardita ma per niente folle, del resto la ricerca scientifica è piena di vicoli ciechi, supposizioni che poi non trovano conferma: inoltre il ruolo del microbiota intestinale è unanimemente oggi ritenuto molto più centrale nello sviluppo di patologie anche di altri distretti di quanto non si pensasse finora, quindi il lavoro di Montagnier in questa direzione è del tutto legittimo e degno di rispetto, solo le evidenze diranno se è anche fondato. Ma la reazione a dir poco perplessa di parte dei colleghi a queste ricerche crea una prima frattura tra Montagnier – abituato fino a quel momento a essere ritenuto un luminare e un punto di riferimento, non certo un bizzarro visionario – e il mondo accademico.
“È possibile che nanostrutture prodotte da batteri intestinali finiscano nel plasma e causino danni al sistema nervoso centrale”
Nel 2011 la frattura si fa sempre più profonda e per la prima volta Montagnier (a quasi 80 anni) arriva all’attenzione del grande pubblico, anche dei cosiddetti “complottisti”. Succede che in occasione del trentennale della comparsa dell’Aids lo scopritore del virus Hiv ovviamente viene intervistato dalle testate giornalistiche di tutto il mondo, e rilascia alcune dichiarazioni abbastanza inattese: “Il trattamento con antiretrovirali blocca la trasmissione del virus, è evidente. Ma non lo eradica e non possiamo permetterci economicamente di trattare con questi costosi farmaci 33 milioni di persone per tutta la vita”. Bisogna trovare quindi un altro modo per combattere l’Aids: “Questo è il problema del popolo africano. La loro dieta non è molto equilibrata, sono in stress ossidativo anche se non sono infettati dall’Hiv, quindi il loro sistema immunitario già non funziona molto bene, è incline perciò a lasciare che l’Hiv entri e persista”. Per lo scienziato ci sono molti metodi per ridurre la trasmissione, semplicemente attraverso misure igieniche e nutrizionali, somministrando antiossidanti come l’estratto di papaya fermentato (Fpp), che Montagnier studia sin dai primi anni Duemila e che prescrisse anche a Papa Giovanni Paolo II prima della sua morte.
Per alcuni anni Montagnier continua – purtroppo senza arrivare a nulla di concreto – i suoi studi sulle nanostrutture create dal Dna batterico e il loro possibile ruolo nell’insorgenza delle patologie neurodegenerative e scompare dai radar dell’opinione pubblica, finché nel 2017 in Francia scoppia una vera bomba. Martedì 7 novembre l’ottantacinquenne ricercatore partecipa a un dibattito pubblico intitolato «Oui au vaccin, non aux 11 vaccinations du nourrisson» (“Sì al vaccino, no alle 11 vaccinazioni del neonato”) al Théâtre des Mathurins di Parigi insieme a Henri Joyeux, espulso dall’Ordine dei medici francese per le sue posizioni no vax. Durante il dibattito Montagnier fa ben due dichiarazioni scioccanti: “Siamo qui per lanciare un allarme, all’intero Paese, al mondo. Vorrei mettere in guardia sulla sindrome della morte improvvisa del lattante. È qualcosa di spaventoso, la causa è sconosciuta, ma ci sono dati scientifici che dimostrano che un gran numero di questi decessi si verifica dopo la vaccinazione” e “Vorrei anche parlarvi del paracetamolo, che viene somministrato ai bambini quando hanno una reazione al vaccino. È veleno”. Passano pochi giorni e queste parole, ovviamente riportate con grande enfasi dai mass media transalpini (e non solo) e accolte trionfalmente dalla comunità no vax, che per la prima volta trovava il consenso addirittura di un Premio Nobel per la medicina, causano una durissima reazione da parte delle autorità sanitarie francesi. Una petizione di 106 membri dell’Académie de Médecine condanna le frasi di Montagnier: “Non possiamo accettare da un nostro collega che utilizzi il suo premio Nobel per diffondere, al di fuori dell’ambito di sua competenza, messaggi pericolosi per la salute, a dispetto dell’etica che dovrebbe governare la scienza e medicina” e i colleghi chiedono per lui “un fermo richiamo all’ordine”.
“Non possiamo accettare da un nostro collega che utilizzi il suo premio Nobel per diffondere, al di fuori dell’ambito di sua competenza, messaggi pericolosi per la salute”
Marc Gentilini, ex capo del dipartimento di malattie infettive de La Pitié Salpêtrière, ex collega e amico del professore, rincara la dose: “Che un premio Nobel per la medicina, peraltro uno che lavora al Pasteur, faccia commenti volutamente ambigui e allarmistici sulla vaccinazione, argomento che esula dal suo campo, è inaccettabile. È una deriva patetica (…) Il Premio Nobel gli è stato assegnato per un fatto specifico, l’isolamento del virus Hiv in un linfonodo che gli è stato portato. Questo gli permette di parlare di Hiv a pieno titolo, ma questo premio Nobel non gli permette di dire fesserie su altri argomenti”. Simile la posizione espressa su “La Stampa” dal matematico Pierluigi Odifreddi: “Un Nobel scientifico premia una particolare scoperta in fisica, chimica o medicina, e non certifica per niente la validità di tutto ciò che i vincitori possono dire o pensare nel resto della loro vita, soprattutto al di fuori del proprio campo di studi. E poiché uno scienziato è un uomo come tutti gli altri, e non un oracolo, il fatto che una volta gli sia andata bene e abbia detto qualcosa di intelligente o scoperto qualcosa di geniale non gli impedisce altre volte di dire stupidaggini o prendere cantonate. In genere non ce ne accorgiamo, perché gli scienziati sono di solito tenuti fuori dai dibattiti televisivi e mediatici, ma quando vincono un premio Nobel ci sono tirati dentro per i capelli, e spesso fanno figuracce. Su Wikipedia inglese c’è addirittura una pagina intitolata Nobel disease (non tradotta in italiano), dedicata a un florilegio delle scemenze che sono uscite dalla bocca dei Nobel”.
“Uno scienziato è un uomo come tutti gli altri, e non un oracolo: il fatto che una volta gli sia andata bene e abbia detto qualcosa di intelligente o scoperto qualcosa di geniale non gli impedisce altre volte di dire stupidaggini o prendere cantonate”
Con l’ascesa inarrestabile dei social network e soprattutto lo scoppio della pandemia di covid-19, Luc Montagnier smette del tutto di essere percepito come un anziano e prestigioso cattedratico e diventa un guru per i complottisti in cerca di conferme prestigiose a questa o quella teoria. In alcuni casi è lui stesso a sostenere – durante eventi pubblici o in interviste a varie testate – teorie controverse e provocatorie, certo, ma molto spesso inoltre le sue affermazioni vengono semplificate, manipolate ed estremizzate (quando addirittura non inventate di sana pianta) e utilizzate in meme che vengono condivisi da centinaia di migliaia di utenti di social in una “guerra di religione” che sta creando danni sociali gravissimi.
“Quale immagine conservare di Luc Montagnier?”
“Quale immagine conservare di Luc Montagnier?”, si chiede Eric Favereu su “Le Temps”, con una certa tristezza. “Quella del primo firmatario del famoso articolo nel maggio 1983 su di una grande rivista scientifica che stabiliva un nesso causale tra la malattia che sarebbe diventata l’AIDS e un retrovirus?”. Ricorderemo il grande scienziato “(…) o questo vecchio signore nel mezzo del suo umano declino di cui abbiamo pietà, quest’uomo che tanti prendono in giro per i suoi sbandamenti e le teorie che ha difeso?”. A mio parere il viaggio umano e professionale di Montagnier evidenzia ancora una volta come debba essere solo e soltanto il metodo scientifico a valere. La libertà di fare ipotesi e ricerche scientifiche è sacra e non devono essere il mercato o il conservatorismo accademico a determinare la direzione in cui la ricerca può e deve andare. Viva gli scienziati eretici o che fanno ipotesi controverse, quindi: non solo non vanno bloccati o derisi, ma anzi vanno tutelati perché rappresentano una risorsa per la ricerca della verità. Ma tutto deve rimanere nell’ambito della scienza e delle sue pur imperfette liturgie, non dilagare sui social network o sui mass media in modo distorto e fuorviante, ostaggio di comunicatori senza scrupoli. Non sono affatto una risorsa i meme deliranti, la propaganda becera sui social network, i complottismi, le truffe ai danni degli ingenui: si tratta di una barbarie e oltretutto una barbarie comoda per i “poteri forti”, non scomoda come crede di essere.
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