Le conseguenze della pandemia e le necessarie restrizioni imposte per contenerla sembrano progettate per ledere la nostra salute mentale, escludendoci dalle esperienze e dalle attività che danno sapore alle nostre giornate. Normalmente, quello che ci permette senza troppi sforzi di mantenere il benessere psicologico è fatto anche di piccole quotidianità, secondo la psicologa statunitense esperta di resilienza Carol Ryff. Incontrare colleghi e amici, conoscere persone nuove e l’energia che questo scatena, la sensazione positiva quando si visita un posto nuovo, una serata fuori con gli amici, progettare una vacanza… Tutte sensazioni che abbiamo messo un po’ da parte. Per questo la psicologa suggerisce di “creare un programma-benessere che soddisfi le tue esigenze a livello psicologico” proponendo sei idee – evidence-based – per prendersi cura della propria salute mentale durante un lockdown.
Non solo. Può sembrare banale – in realtà non lo è per niente –, ma “essere grati di ciò che si ha e pensare al futuro con un approccio positivo” giova al nostro benessere psicologico molto di più rispetto ai sentimentalismi per il passato, come per esempio la nostalgia per qualcosa che accadeva prima di questa emergenza. A confermarlo è uno studio pubblicato dal Journal of Positive Psychology condotto dai ricercatori dell’Università del Surrey, tra cui Jane Ogden, docente di Health Psychology, che spiega: “I lockdown dello scorso anno hanno avuto un impatto drammatico sul nostro benessere mentale ed emotivo ed è probabile che tutti quelli futuri avranno lo stesso effetto. È stato riscontrato un preoccupante aumento dei livelli di depressione e ansia e questo può avere un impatto negativo sulla nostra salute fisica”. Per questo Ogden sottolinea l’importanza di “comprendere quali siano le tecniche psicologiche che possono apportare maggiori benefici e supportare le persone durante questi tempi difficili e inquietanti”.
L’impatto sugli adolescenti
L’allarme arriva anche dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, nelle parole del responsabile dell’Uoc di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza Stefano Vicari che, nelle scorse settimane, ha rilasciato alcune dichiarazioni riguardo il grave aumento di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo tra i giovanissimi negli ultimi mesi. Questo fenomeno è sempre esistito – racconta il professore ordinario di Neuropsichiatria Infantile presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – ma da ottobre si è acutizzato. “Si tratta principalmente di tagli negli avambracci, sulle braccia, nelle gambe. Molti ragazzini ci dicono che lo fanno perché si sentono attanagliati da un malessere psicologico ed è come se il male fisico li liberasse dal dolore interiore”.
I posti letto sono occupati al 100 per cento da novembre e non era mai accaduto prima, racconta Vicari. “Stiamo assistendo a due fenomeni: da una parte, abbiamo gli adolescenti che per autoaffermarsi diventano aggressivi, fanno male agli altri, fanno male ai genitori, si tagliano, diventano intrattabili. Dall’altra, abbiamo i giovani che si chiudono a riccio, si rifugiano nel loro mondo e nella loro stanza e non sappiamo se avranno voglia di uscire fuori da questo guscio, una volta passata la tempesta. Il fatto è che la pandemia sta facendo aumentare lo stress e lo stress facilita la comparsa di una serie di disturbi, principalmente disturbi d’ansia, disturbi del sonno e depressione”.
Una condizione senza precedenti
Stress, ansia, insonnia e depressione sono infatti tra le conseguenze psicologiche più comuni delle misure di confinamento, come riportano alcuni degli studi condotti sul tema e raccolti in una review pubblicata su The Lancet. Come sostengono anche Massimo Biondi, Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale, Sapienza Università di Roma, e Angela Iannitelli, Società Psicoanalitica Italiana, in un editoriale di pochi mesi fa pubblicato sulla Rivista di Psichiatria, “lo stress da pandemia è una condizione del tutto nuova rispetto a quanto a noi noto nella pratica clinica”. Uno stress, affermano gli esperti, diverso da quello legato a eventi traumatici o eventi estremi imprevisti, come i traumi post catastrofe naturale. Si tratterebbe di “uno stress individuale comunitario, ‘non convenzionale’, sospeso, subacuto, persistente, di una situazione stressante perdurante e perturbante”.
Lo stress da pandemia è una condizione del tutto nuova rispetto a quanto a noi noto nella pratica clinica.
Se, nella fase acuta, è importante ricorrere alle protezioni individuali per proteggere sé stessi e gli altri, nella fase successiva si tende a inventarsi delle strategie per adattarsi alla situazione che si sta vivendo: “l’uomo si scopre a costruire o potenziare la resilienza individuale e di comunità”. Per superare la seconda fase – suggeriscono Biondi e Iannitelli – “occorre sviluppare e migliorare le tecniche di coping, cioè sviluppare pensieri e comportamenti per affrontare e superare la criticità, mantenere e sviluppare il supporto sociale, (…) promuovere e sviluppare la resilienza individuale e di comunità. Il supporto sociale appare una variabile fondamentale”. Inoltre, “la resilienza individuale può essere potenziata lavorando sulle risorse vitali di ciascuna persona, la resilienza di comunità va protetta attraverso la speranza, la solidarietà e la gratitudine”. Un’attenzione particolare, sottolineano, deve essere rivolta alla protezione delle persone vulnerabili, delle persone con disabilità e al riconoscimento precoce di disturbi mentali prodotti dalla crisi con interventi appropriati e immediati.
Fragilità e sofferenza mentale
Per le persone che vivono la condizione di sofferenza mentale la comunità è anche sinonimo di cura. Le relazioni, l’affettività e l’ascolto rappresentano alcuni dei pilastri del percorso di cura. Era il noto psichiatra Franco Basaglia alla fine degli anni ’70 a divulgarlo per la prima volta, costruendo un nuovo modello di assistenza psichiatrica e aprendo le porte dei manicomi. “Abbiamo avuto un’intuizione geniale, ovvero che la cura si fa nella comunità. E che la comunità è un dispositivo di cura” aggiunge Giuseppe Riefolo, psichiatra della Asl Roma 1, in un approfondimento su Forward di alcuni mesi fa.
E in questi mesi, in cui la situazione complessivamente è ancora molto difficile per la generalità delle persone, “per quanto riguarda coloro che vivono la condizione di sofferenza mentale e le loro famiglie è evidente come questa emergenza sanitaria abbia complicato ancora di più la loro esistenza, accentuando le difficoltà che quotidianamente incontrano e interrompendo dei percorsi terapeutici”. A sottolinearlo è Gisella Trincas, presidente dell’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale, rinnovando l’accorato appello alle istituzioni lanciato durante i primi mesi della pandemia.
Le attività riabilitative in un percorso di cura più o meno intenso sono fondamentali per il percorso di ripresa verso una maggiore autonomia, verso l’emancipazione della persona che vive la condizione della sofferenza mentale. Attività che in questi mesi sono state “totalmente interrotte o ridotte drasticamente”, riporta Trincas, poiché a molti dei servizi vi si accede su appuntamento o con ingressi fortemente contingentati. “Questo influisce sulle condizioni di salute delle persone, sulle loro frustrazioni, sulle difficoltà delle relazioni all’interno delle famiglie e all’interno del contesto sociale” afferma. “È avvenuta, di fatto, l’interruzione di un percorso fondamentale per la vita delle persone e l’interruzione di questo percorso ha drammaticamente peggiorato le condizioni di salute delle persone che già vivevano una fragilità psichica, inoltre ha determinato una sofferenza anche all’intera collettività”.
Per quanto riguarda coloro che vivono la condizione di sofferenza mentale e le loro famiglie è evidente come questa emergenza sanitaria abbia complicato ancora di più la loro esistenza.
Secondo Gisella Trincas la situazione è particolarmente grave e “fortemente sottovalutata. Io non vorrei che dietro la situazione reale di emergenza sanitaria si nascondessero le gravi inefficienze di un sistema sanitario e sociale che non reggeva più e che andava modificato e potenziato. Questo potenziamento, che sarebbe già dovuto partire da tempo, noi non lo vediamo e di questo siamo fortemente preoccupati”.
Potenziamento e partecipazione
A confermare la necessità di un potenziamento sono anche i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) riportati nell’Atlante della salute mentale 2017 (considerato la risorsa più completa sull’informazione globale sulla salute mentale), da cui emerge che “sebbene alcuni paesi abbiano fatto progressi nella definizione e pianificazione delle politiche per la salute mentale, c’è una carenza globale di operatori sanitari addestrati e una mancanza di investimenti in strutture di salute mentale basate sulla comunità”, come riporta Quotidiano Sanità. A evidenziare questa necessità è anche Shekhar Saxena, direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze dell’Oms, secondo cui “il potenziamento delle risorse per la salute mentale non sta avvenendo abbastanza velocemente”.
Oltre alla necessità di un maggiore investimento sul territorio in termini di risorse umane, professionali e finanziarie, mantenendo aperti i servizi che si occupano di salute mentale, Gisella Trincas mette in evidenza quella di “una visione complessiva, globale, che va verso la strada indicata da Franco Basaglia, dalla legge di riforma psichiatrica, ovvero quella di rispondere ai bisogni individuali delle persone, senza interventi preconfezionati o predefiniti, rispondendo a quelle che sono le necessità di ognuno di noi. Le necessità sono quelle di avere la possibilità e la capacità di stare nelle relazioni, di poter gestire la propria esistenza nella libertà, nella partecipazione, nella condivisione”.
“Non rinunciamo a partecipare”, è il sentito appello di Trincas. “Questo dovremmo fare, noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di indicare strade e soluzioni, e le istituzioni devono ascoltare la voce delle persone, delle organizzazioni e intervenire, non privando le persone e la collettività dei diritti fondamentali. Continuiamo a partecipare, a chiedere con forza soluzioni reali”.
La pandemia ha fatto sì che molte più persone abbiano acquisito una percezione più intima di cosa significhi essere socialmente isolati, soli o entrambe le cose.
Un problema di salute pubblica
Uno sguardo illuminato al futuro arriva anche da alcune riflessioni di Roger O’Sullivan (Institute of Public Health in Ireland) e colleghi recentemente pubblicate su The Lancet Healthy Longevity, in cui gli autori si domandano se questa emergenza possa dare l’input ad un ripensamento del concetto di solitudine, di isolamento sociale, che fino a poco tempo fa erano considerati problemi legati alla senilità e una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento. Adesso, questa cornice è svanita e solitudine e isolamento sono stati inquadrati come problemi di salute pubblica, problemi che possono toccare persone di qualsiasi età. “La pandemia ha fatto sì che molte più persone abbiano acquisito una percezione più intima di cosa significhi essere socialmente isolati, soli o entrambe le cose” affermano O’Sullivan e colleghi. “Oltre a cambiare la natura delle connessioni sociali, la pandemia ha messo in discussione la visione stereotipata del solitario”.
Finalmente, secondo gli studiosi, abbiamo l’opportunità di costruire qualcosa di nuovo a partire dai sentimenti mostrati “nei confronti di coloro che vivono la solitudine e l’isolamento sociale”: empatia, compassione, prendersi cura di qualcuno. Emerge quindi anche un altro imperativo, oltre alla riduzione dei tassi di trasmissione dell’infezione, “affrontare l’ampio impatto sociale di covid-19. In particolare, dobbiamo capire quale supporto risulta necessario ora e quale supporto possono fornire le organizzazioni e le comunità per pianificare la fase successiva della pandemia”. Come è stato dimostrato infatti “la solitudine e l’isolamento sociale sono associati a rischi maggiori di sviluppare fragilità”. Per i governi di tutto il mondo, concludono i ricercatori britannici, “ci sarà sempre di più la necessità di focalizzarsi sia sulle implicazioni a breve termine sia su quelle a lungo termine della solitudine e dell’isolamento sociale, come priorità di salute pubblica e riconoscere che non sono soltanto problemi che devono affrontare gli individui ma la società nel suo insieme”.