Per lavorare nell’editoria servono dosi superiori alla media di pressapochismo e cialtroneria, spiega Matteo Codignola nel suo libro Cose da fare a Francoforte quando sei morto. L’ho già detto qui, peraltro. Quello che non ho ancora raccontato è come queste caratteristiche non siano previste tra le qualità di chi si occupa di editoria dove pubblicare vuol dire non solo fare i soldi sul serio ma soprattutto fare un mestiere parecchio diverso da quello di un tempo.
L’industria planetaria del publishing ha da tempo iniziato a gestire e valorizzare i contenuti quasi a prescindere dalla forma del libro: “planetaria” perché gli attori sono quasi sempre senza volto e ovviamente sovranazionali così che non avrebbe senso ricondurli ad una nazione né a contesti o specifiche realtà. A ritmi velocissimi – alla faccia di chi va su una macchina scassata da Roma a Torino o a Francoforte – si sta compiendo qualcosa di molto più grande della transizione dalla carta al digitale. Il cambiamento è fatto di un radicale miglioramento organizzativo, che si traduce in nuovi modi di lavorare i contenuti e di renderli disponibili. La nuova editoria è fatta di package innovativi, di sviluppo di prodotti impensati fino a poco tempo fa, di nuove professioni che giocano ruoli centrali. La rivoluzione ha cambiato anche l’atteggiamento di molti protagonisti che fino a poco tempo fa stavano sullo sfondo: università, istituzioni, fondazioni, società scientifiche.
Gli elementi che hanno reso più veloce questa rivoluzione del publishing sono tre, secondo John B. Thompson, docente emerito di Sociologia all’università di Cambrige in Gran Bretagna e autore di Book wars, un libro di cui torneremo a parlare. Primo, la trasformazione dei canali di vendita, con la chiusura di tante librerie indipendenti, l’imminente collasso delle catene delle librerie e l’affermazione di Amazon. Secondo, il ruolo preponderante degli agenti letterari, non più solo intermediari degli autori rappresentati ma veri e propri avvocati chiamati a massimizzare i profitti. Terzo, il gigantismo delle corporation editoriali che hanno via via acquisito i marchi più prestigiosi dell’editoria internazionale. Simon & Shuster, Harper, Scribner, Random House oggi sono solo delle “imprint” all’interno di gruppi editoriali impersonali. Un tempo, al nome di un editore associavamo uno stile, un gusto, delle idiosincrasie e delle passioni: oggi non è più così e ci siamo rapidamente abituati ad accettare che un autore pubblichi oggi con una casa editrice e domani con un’altra.
Di questo scenario il lettore percepisce la novità legata a quello che potremmo chiamare il “consumo” del libro. Oppure, con uno sguardo un po’ più ampio, la fruizione del testo. In pratica sembra che la novità sia nell’ebook o nell’audiolibro. Per carità, ci volevano. Ma si perde di vista la maggiore trasformazione, che riguarda i modi di produzione del contenuto. Non è passato molto tempo da quando una redazione riceveva il testo prima manoscritto e poi dattiloscritto che doveva essere composto, lavorato con interventi successivi fino alla stampa. Dal 1897 ai primi anni Ottanta del Novecento libri e riviste si componevano ancora con la linotype: righe di caratteri realizzate col piombo fuso dai linotipisti, quelli che mettevano paura di notte, come cantava Lucio Dalla in Com’è profondo il mare. Ogni errore di composizione o ripensamento obbligava a rifare tutto il processo rigo per rigo. Non era possibile pensare ad altre destinazioni di quel contenuto che non dovesse prevedere un nuovo completo ciclo di lavorazione. Anche il passaggio dalla prima edizione cartonata al paperback rendeva necessario ricominciare tutto – o quasi – daccapo.
[Puoi prenderti una pausa. Per ascoltare Dalla. Oppure per conoscere la storia della linotype come l’ha raccontata la rivista The Atlantic. Oppure per vedere il film Linotype di Doug Wilson, o il trailer di due minuti.]
La rivoluzione editoriale è nel processo e non nel prodotto.
Oggi per un editore il lavoro dell’autore è un file di informazioni. Che possono essere manipolate, codificate e adattate a qualsiasi output diverso e ulteriore rispetto a quello originariamente immaginato. “La rivoluzione editoriale è nel processo e non nel prodotto”, ha scritto Thompson.
Il minor costo della produzione editoriale ha consentito agli editori di ri-produrre tutti quei titoli esauriti per i quali era un tempo impensabile una ristampa per mancanza di convenienza. Oggi, anche vendere poche copie di un libro – magari per molti anni – può non solo essere possibile, ma può anche valere la pena. È questa la ragione dell’espansione non tanto dei singoli cataloghi delle case editrici più famose ma della nascita di nuove realtà di piccolissime dimensioni, pronte a ripubblicare libri esauriti nel momento in cui gli editori che li avevano originariamente pubblicati lasciano liberi i diritti. L’aumento dell’offerta fa sembrare qualsiasi libreria inevitabilmente sfornita: non troviamo quasi mai quello che cerchiamo perché i nostri interessi sono sempre più settoriali, specifici, allenati da letture e da ascolti online che parlano ad un numero sempre più limitato di persone. I libri vivono molto più a lungo di un tempo: oggi, con il print on demand un testo può essere stampato apposta per noi. Se cerco il libro di una university press americana, il magazzino di Amazon più vicino a casa mia si fa mandare il file Pdf dall’editore e il giorno dopo stampa una copia in digitale e me la porta a casa. Chris Anderson pensava – forse soprattutto – all’editoria quando nel 2004 scriveva un articolo per Wired introducendo per la prima volta il concetto di long tail, la coda lunga del marketing e del commercio.
Il mercato dei libri che non sono neanche venduti in una libreria media è più grande di quello dei libri che lo sono.
Oggi la coda lunga riguarda i contenuti e non solo “il libro” come oggetto. Posso essere straordinariamente interessato ad un contenuto ma posso anche volerlo godere nel modo che preferisco. Posso scoprire che – non essendo riuscito (o non avendo voluto) leggere le 472 pagine del suo romanzo – io desideri invece abbandonarmi all’ascolto di La città dei vivi, il podcast di Nicola Lagioia uscito il 10 ottobre 2021. “I podcast non hanno una forma narrativa già codificata, si può sperimentare: per me è stata un’esperienza bellissima, grazie anche al lavoro di gruppo”, ha detto lo scrittore e direttore del Salone del libro di Torino all’Ansa. “Ho realizzato tante interviste anche a persone che nel libro non ci sono, ho inserito gli interrogatori di Foffo e Prato. Con la voce ci si accorge di nuove sfumature, soprattutto se non sei un professionista. A me è successo agli inizi del lavoro in radio: la voce mi metteva a nudo più di quanto volessi. E io che per il libro ho letto tutti gli atti processuali ascoltando gli interrogatori ho raggiunto un livello diverso di comprensione”. Questi sono solo alcuni degli effetti di una rivoluzione nei processi editoriali che sta modificando l’industria del publishing a ritmi velocissimi. L’industria editoriale scientifica ha fatto da apripista per questa rivoluzione: basti pensare alla trasformazione dei manuali universitari – dall’anatomia alla fisiologia – che si sono trasformati in percorsi di apprendimento che ricorrono ad ogni possibile soluzione tecnologica.
Dopo aver stravolto la filiera del commercio, sta proponendo modi sempre nuovi di comunicazione disintermediata tra chi i contenuti li produce e chi li usa. Hai voglia, insomma, a lamentarti perché diminuisce il numero delle librerie di quartiere. La questione è un’altra: è in ballo la produzione di conoscenza, la costruzione del sapere e non è detto che se la libreria dietro l’angolo tira giù per sempre la saracinesca sia una tragedia, perché in cambio potremmo contare su una straordinaria prossimità con l’autore. “Adesso gli autori possono fare a meno dei gatekeeper letterari – scrive Thompson – degli agenti e degli editori interessati a comprare i diritti, e costruire carriere di successo con l’aiuto di piattaforme e punti vendita di self publishing che non esistevano 20 o addirittura 10 anni fa. Il self publishing è stato sdoganato; abbiamo fatto molta strada dai giorni in cui i recensori scrivevano sui libri autopubblicati come progetti di vanity press. Le pagini di recensioni sui quotidiani sono quasi tutte scomparse, ma i commenti sui libri compaiono su Internet, in riviste serie e nei feed degli influencer di Instagram e TikTok. È un #bookstagram oltre che un mondo NYTBR ora. A me, questa sembra una vittoria per libri, autori e lettori”.
A proposito, hai visto Jonathan Franzen presentare il suo nuovo libro agli amici della Einaudi?