Body positivity, fat acceptance, diet culture. Che non si sia ancora trovato un corrispettivo in lingua italiana per parlare di questi fenomeni indica già dove sia il problema. Se ne parla troppo poco, e spesso se ne parla male.
La stessa persona che sta scrivendo questo articolo ha sempre guardato a certe battaglie con l’occhio critico di chi, da 45 anni, si sente ripetere che il grasso è il male, e che quindi promuovere l’accettazione di corpi grassi avrebbe portato inevitabilmente a perdere terreno nella lotta al sovrappeso e all’obesità, indicati dalla Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come fattori di rischio (insieme ad ipertensione, fumo, alcol e una vita sedentaria) per le malattie cardiovascolari. E non solo.
Ma è davvero così? O meglio, siamo davvero sicuri che l’approccio alla cura delle persone grasse debba passare attraverso la perdita di peso, e non attraverso l’accettazione e la promozione di una vita soddisfacente, aiutando a combattere lo stigma e la discriminazione che queste persone vivono? Siamo sicuri che il nostro istintivo biasimo per le persone grasse non sia semplicemente grassofobia travestita da “preoccupazioni per la loro salute”, come sostiene Amy Erdman Farrell nel libro Fat shame: Lo stigma del corpo grasso”, pubblicato recentemente da Tlon?
Le ricerche della Farrell (che insegna Women’s, Gender and Sexuality Studies al Dickinson College di Carlisle in Pennsylvania) mostrano come non ci sia un discorso legato alla salute alla base dello stigma culturale associato al grasso: “È evidente dai documenti storici che le connotazioni del grasso e della persona grassa – pigra, insaziabile, avida, immorale, senza controllo, stupida, brutta e senza forza di volontà – sono precedenti e l’esplicita preoccupazione per i problemi di salute si è aggiunta in seguito”.
Aggiunta, quindi. La così detta “epidemia di obesità”, il catastrofismo con il quale è stato rappresentato l’aumento di peso in alcune fasce di popolazione, la colpevolizzazione delle persone grasse, la pressione sociale alla magrezza, la rappresentazione del corpo grasso come qualcosa di pericoloso in sé, ha prodotto discriminazioni e stigmatizzazioni tali da richiedere vere e proprie aree di attivismo politico e sociale: dalla body positivity, alla fat acceptance, alla “health at every size”, alla lotta contro la cultura della dieta. Ad accomunare questi movimenti, l’accettazione della diversità dei corpi (il proprio e quello altrui), della diversità di pesi corporei (predisposti geneticamente e non frutto della forza di volontà), il sostegno a prendere consapevolezza delle discriminazioni subite (sul lavoro e nella istruzione, nelle relazioni interpersonali, nel tempo libero) la non medicalizzazione della propria vita (da cui anche la preferenza per il termine grasso al posto di obeso), l’autodeterminazione, la salute vissuta come un diritto e non come un dovere.
Siamo sicuri che il nostro istintivo biasimo per le persone grasse non sia semplicemente grassofobia travestita da “preoccupazioni per la loro salute”?
Alcuni studi clinici ci dicono che solo il 20 per cento degli individui obesi che hanno ottenuto perdita di peso significativa (il 10 per cento del proprio peso) mantiene il nuovo peso corporeo per almeno un anno. Dopo cinque anni, la percentuale scende ulteriormente. E questo poco o nulla ha a che fare con la volontà e il controllo. Dai determinanti sociali ed economici (disponibilità economiche diverse orientano a consumi diversi in campo alimentare, ambiente circostante e lavori più o meno sedentari favoriscono stili di vita differenti) ai complessi sistemi di segnali che l’organismo umano ha per “mantenere” un peso, il motivo per cui si acquista o si perde peso non è sotto il nostro controllo.
Altri studi ruotano attorno al così detto “paradosso dell’obesità”, al di là della validità delle conclusioni di questi studi, è comunque emersa la scarsa accuratezza di uno strumento come l’indice di massa corporea (in inglese Bmi, body mass index) per stabilire lo stato di forma dell’individuo, e che il grasso in sé non è un fattore di rischio (deve essere associato infatti a tutta una serie di altre componenti, dal tipo di alimentazione allo stile di vita, dai fattori genetici predisponenti alla presenza di patologie sottostanti). Piuttosto, la variazione di peso a cui la persona grassa si sottopone (ciclica, purtroppo, come sappiamo) e il senso di fallimento e autosvalutazione a cui si accompagna il ritorno al peso precedente, oltre alla discriminazione vissuta a livello sociale, hanno effetti fisici e psicologici che possono rivelarsi ben più gravi della presenza di un indice di massa corporea superiore a quello che viene definito un valore “normale”.
Nonostante questo sia oramai riconosciuto almeno da una parte della comunità medico-scientifica, nell’ambito dei così detti “fat studies” (area accademica di ricerca interdisciplinare nata proprio per approfondire le implicazioni sociali, culturali, storiche, politiche e sanitarie dei modi in cui la grassezza come fenomeno e le persone grasse sono stati rappresentati) è emerso comunque come sia anche lo stigma da parte dei professionisti della salute a ostacolare la corretta gestione del paziente e a peggiorare i suoi esiti clinici: in ambito sanitario le persone grasse sono spesso trattate con meno umanità e non vengono loro offerte le migliori curi disponibili a causa del così detto “weight bias”, la convinzione cioè (da parte del personale sanitario) che i loro problemi derivino sempre e solo dal loro peso eccessivo. Questo atteggiamento porterebbe quindi le persone grasse a non cercare cure mediche per i propri disturbi, con ricadute naturalmente negative per la loro salute generale.
Passare da “come rendere magre le persone grasse” a “come rendere sane le persone grasse”: il paradigma “Health at every size”
Per approfondire cosa è l’approccio “Health at every size” (Haes), abbiamo intervistato Veronica Bignetti, dietista esperta in disturbi alimentari e Intuitive eating. “Il paradigma Health at every size nasce dall’esigenza di rispondere al fallimento dei protocolli basati sulla perdita di peso. Ad oggi lo stato dell’arte sull’obesità vede tutti concordi nel definire le diete fallimentari, come qualsiasi approccio focalizzato sugli obiettivi di peso. L’altra evidenza importante è quella relativa al danno, al rischio che si associa alle diete, perché, oltre a non funzionare, provocano una relazione disfunzionale con il cibo nel 40 per cento delle persone, e un disturbo alimentare nel 20 per cento (specialmente il disturbo da alimentazione incontrollata o Binge Eating Disorder)”, ci spiega. “Il paradigma Health at every size si inserisce in questo punto, per aiutare le persone a trovare un equilibrio e un benessere a prescindere dal peso, coinvolgendo tantissimi altri tasselli della loro salute, tra cui naturalmente una alimentazione protettiva e preventiva e il movimento, sempre in linea con i propri bisogni, oltre ad obiettivi legati alla sfera psicologica e sociale.
Come riportato nell’articolo di Linda Bacon “Weight Science: Evaluating the Evidence for a Paradigm Shift”, studi clinici controllati randomizzati indicano che un approccio Haes è associato a miglioramenti statisticamente e clinicamente rilevanti nei parametri fisiologici (pressione sanguigna, profilo lipidico), nei comportamenti salutari (abitudini alimentari e attività fisica) e risultati psicosociali (autostima e immagine corporea) e raggiunge questi esiti di salute con maggiore successo rispetto al trattamento dimagrante, senza le controindicazioni associate a un approccio focalizzato sul peso, di cui abbiamo già parlato.
Il paradigma Health at every size si inserisce in questo punto, per aiutare le persone a trovare un equilibrio e un benessere a prescindere dal peso.
”Health at every size”, continua la dottoressa Bignetti, “non esclude che alcuni pesi possano essere associati a un maggior rischio per la salute, ma asserisce che non si possa sapere dal peso delle persone se sussiste un rischio o meno. La salute è un puzzle di mille altri determinanti dove, se anche il peso di una persona è, nel suo caso specifico, legato a un peggioramento della salute e a una condizione di profilo metabolico non fisiologico, comunque va considerato come un fattore immodificabile, come l’età. Quindi se dopo aver fatto una valutazione lunga e attenta di tutti i comportamenti della persona, protettivi e a rischio, il peso in eccesso della persona viene valutato tra i fattori che si associano e cooperano alla produzione di uno stato di salute metabolica non ottimale, anche se così è, restano moltissimi fattori di protezione su cui lavorare con un approccio non focalizzato sul peso (muoversi per il piacere di farlo, mangiare bene per il piacere di mangiare bene e per il piacere di seguire i propri bisogni) ma su un obiettivo più ampio di salute.
In Italia il paradigma dominante continua a essere quello focalizzato sul peso, anche se non prescrittivo. L’obiettivo continua a essere quindi quello di una perdita di peso del 5-10 per cento, prevedendo quindi meccanismi dannosi come la restrizione calorica, la restrizione cognitiva, la mortificazione del proprio corpo, che viene vissuto come qualcosa di sbagliato e di malato. Questa resistenza al passaggio a un nuovo paradigma è comprensibile: una visione etica e valoriale della salute così focalizzata sul corpo rende difficile cambiare approccio. Chi ha mostrato invece interesse nel comprendere e accogliere il nuovo paradigma sono le persone attive nella lotta contro le discriminazioni, e nella ricerca femminista, persone che tipicamente hanno una lente di visione della salute della persona più inclusiva”.
Siete ancora così incontrovertibilmente sicuri, quindi, che sia il grasso a far ammalare le persone grasse?