Antropocene è il nome, non scientifico, con cui oggi ci si riferisce spesso a questa nostra epoca, all’età dell’essere umano sul pianeta Terra. Lo ha coniato, alla fine dell’800, il geologo e paleontologo lombardo Antonio Stoppani e negli ultimi decenni ha acquistato sempre maggiore popolarità e una connotazione non sempre positiva: lo si usa spesso per riferirsi al modo in cui, attraverso le attività umane, abbiamo modificato l’ambiente della Terra in diversi modi e con diverse conseguenze.
“L’esempio più comune che si fa, parlando di antropocene, delle conseguenze delle azioni dell’uomo e delle modifiche a esse dovute, è quello del riscaldamento globale: attraverso le attività umane abbiamo cambiato la nostra atmosfera e il nostro pianeta. In maniera simile, sempre attraverso attività umane, abbiamo creato un ambiente di travolgente sovrabbondanza”, racconta a Senti chi parla la psichiatra statunitense Anna Lembke, direttrice della Stanford Addiction Medicine Dual Diagnosis Clinic presso la Stanford University che esplora questo concetto nel suo ultimo libro . “Dopamine nation” (che sarà pubblicato a breve anche in Italia da ROI Edizioni) parla proprio di come oggi, in un mondo – per lo meno quello occidentale – in cui tutti i bisogni sono facilmente soddisfatti, ci siamo circondati di stimoli in grado di scatenare il rilascio di dopamina nel cervello, in grande quantità, varietà, con straordinaria accessibilità e ubiquità.
La dopamina è uno dei neurotrasmettitori del cervello che attiva i nostri circuiti del piacere, in particolare della gratificazione immediata. È anche uno dei neurotrasmettitori che viene adoperato per indicare la capacità di una sostanza o di un comportamento di creare dipendenza: tanto maggiore è il rilascio di dopamina in seguito a un’azione o al consumo di una sostanza, tanto maggiore è il potere di creare dipendenza della stessa.
Tutto oggi, secondo Lembke, è stato “drogato” in modo da indurre il rilascio di dopamina: il modo in cui entriamo in relazione tra noi, in cui ci informiamo, impariamo, mangiamo… Abbiamo un “ago ipodermico” in tasca, nelle vesti del nostro smartphone, in grado di garantirci uno shot di dopamina in qualsiasi momento più volte al giorno, 24/7 praticamente gratis. Molti dispositivi, applicazioni, piattaforme, siti sono disegnati apposta per favorire un comportamento compulsivo, per trasformare le nostre visite e il nostro uso in un’abitudine. Lo stesso vale per altri beni di consumo che oggi sono facilmente accessibili e disegnati e prodotti in modo da agire sui nostri meccanismi della ricompensa e renderci, se non veri e propri dipendenti, per lo meno affezionati e fedeli consumatori. Pensiamo all’industria del cibo (ne avevamo parlato qui): gran parte degli investimenti dell’industria alimentare sono dedicati proprio a trovare combinazioni di sapori, consistenze, packaging che ci invitino a consumare sempre di più.
L’edonismo, la ricerca del piacere fine a se stessa, porta all’anedonia, che è l’incapacità di godere del piacere di qualsiasi cosa.
Quale è il problema nell’aver disegnato e creato un mondo in grado di procurarci una scarica di piacere in qualunque momento, in qualunque luogo, a poco prezzo? Il problema è che nel nostro cervello, piacere e dolore vanno insieme: sono processati nelle medesime aree e, detto in parole semplici, sono mantenuti o dovrebbero esserlo in un costante equilibrio. Lembke nel libro lo spiega usando la metafora di un’altalena, di quelle di legno, vecchio stile, in cui un bambino si siede a un’estremità e uno all’altra. Quando qualcosa, un pezzetto di cioccolata, una striscia di cocaina o un like su un nostro post Instagram provoca un aumento di piacere, un lato dell’altalena scende un pochino. A questo poi corrisponde sempre un ‘dolore’ che fa risalire l’altro lato dell’altalena, squilibrandola in senso opposto. E quindi, per compensare questo dolore, quello che si fa o si vorrebbe fare è ripetere il comportamento che ha provocato piacere, che deve essere però più forte e più intenso perché prima deve riportare l’altalena in equilibrio e poi dare piacere.
A lungo andare si instaura un’abitudine che porta a un sovraconsumo, e saranno necessarie dosi sempre maggiori a cui poi corrisponderà una fase di “dolore” sempre più intensa e prolungata. “L’edonismo, la ricerca del piacere fine a se stessa, porta all’anedonia, che è l’incapacità di godere del piacere di qualsiasi cosa”, ci racconta la psichiatra, che nel libro riporta anche alcuni dati allarmanti. “Secondo il rapporto sulla felicità mondiale che classifica 156 paesi in base a quanto i loro cittadini si percepiscono felici, le persone che vivono negli Stati Uniti hanno riferito di essere meno felici nel 2018 rispetto al 2008. Altri Paesi con misure simili di sostegno sociale e aspettativa di vita hanno visto diminuzioni simili nei punteggi di felicità auto-riportati, tra cui Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Giappone, Nuova Zelanda e Italia. (…) Il numero di nuovi casi di depressione in tutto il mondo è aumentato del 50 per cento tra il 1990 e il 2017 e gli aumenti più elevati di nuovi casi sono stati osservati nelle regioni con il più alto indice sociodemografico (reddito), in particolare il Nord America”. Il motivo di tutta questa infelicità, spiega la psichiatra, potrebbe dunque risiedere proprio in tutti quei comportamenti in cui ci rifugiamo per trovare piacere e gratificazione. Il cervello non è in grado di stare al passo e quindi si trova sempre a rincorrere rendendoci sempre meno in grado di ritardare la gratificazione, di lavorare per un piacere che verrà.
Cosa sono le dipendenze non da sostanze
In alcune persone questi comportamenti degenerano in una vera e propria dipendenza, definita nel libro come “il consumo continuato e compulsivo di una sostanza o di un comportamento nonostante il danno che si causa a se stessi e/o agli altri”. Il concetto di dipendenza comportamentale, anche detta dipendenza non da sostanze, non è nuovo; già nel 2010 Jon E. Grant et al. lo sintetizzavano così sul The American Journal of Drug and Alcohol Abuse: “Diversi comportamenti, oltre all’ingestione di sostanze psicoattive, producono una ricompensa a breve termine che può generare comportamenti persistenti nonostante la conoscenza delle conseguenze avverse, ovvero un ridotto controllo sul comportamento. (…) Un punto di vista postula che questi disturbi si trovino lungo uno spettro impulsivo-compulsivo, con alcuni classificati come disturbi del controllo degli impulsi. Una concettualizzazione alternativa, ma non mutuamente esclusiva, considera i disturbi come dipendenze non sostanziali o ‘comportamentali’.”
“Le chiamiamo dipendenze non da sostanze perché hanno delle similitudini enormi rispetto alle dipendenze da sostanza, con la differenza che non c’è qualcosa che dall’esterno entra nel nostro sistema nervoso e produce degli effetti, ma è un qualcosa che alcuni comportamenti inducono nel nostro cervello”, ci spiega Giovanni Martinotti, docente di psichiatria presso l’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti (e che spiega alcune di queste cose sui suoi profili Instagram e Tik Tok). “Il comportamento diventa una dipendenza: c’è assuefazione, quindi bisogna aumentare sempre di più la quantità di tempo dedicata al comportamento in questione; c’è l’astinenza – ovviamente non si hanno i sintomi fisici dell’astinenza da eroina ma si hanno comunque dei sintomi psichici molto importanti come irritabilità, angoscia, rabbia, nervosismo – e tanti altri aspetti; non ultimo il distogliere il tempo da altre attività, focalizzare gli interessi a scapito di relazioni, lavoro, vita familiare. Quando entra in gioco una dipendenza di questo tipo, tutto viene messo in secondo piano e la dipendenza guadagna sempre più spazio fino a rendere povera la vita di queste persone”.
Le chiamiamo dipendenze non da sostanze perché hanno delle similitudini enormi rispetto alle dipendenze da sostanza.
Certo non tutti quelli che si concedono serate di binge watching, che spendono ore sui social media a postare foto, commenti e controllare like e condivisioni o ancora che cedono con gioia e frequenza alle tentazioni dello shopping online – tanto per fare degli esempi – possono essere catalogati come “dipendenti”. “Dov’è la grande differenza tra il giocare sociale, l’avere una sessualità normale, il fare degli acquisti come siamo tutti soliti fare e diventare dei giocatori patologici, dei dipendenti da sesso, delle persone che soffrono di shopping compulsivo?”, prosegue Martinotti. “La differenza è nel fatto che questi comportamenti diventano obblighi da cui non riusciamo più a svincolarci. Per cui inizio a giocare sempre di più, sempre più frequentemente, sempre somme più alte; questo induce in me degli stimoli sempre più potenti fino a quando, andando a reiterare nel tempo, diventano stimoli verso i quali non riesco più a resistere: non riesco più a farne a meno”.
Il fatto che questi comportamenti, quando non degenerano in dipendenze, siano considerati normali (sono diffusi tra un milioni di persone) rende più difficile individuare quei soggetti in cui invece il comportamento è patologico. “La difficoltà è individuare il punto di passaggio da abitudine a dipendenza. Pensiamo ai miliardi di persone che al mattino appena alzati per prima cosa guardano il proprio smartphone, cosa che fa la stragrande maggioranza di persone che dispone di un telefonino”, sottolinea Maurizio Fea, psichiatra, direttore fino al 2004 del Dipartimento Dipendenze di Pavia, autore del volume “Spegni quel cellulare. Le tecnologie tra cattive abitudini e dipendenze” (Carocci, 2019). “Non esiste un punto di passaggio preciso da abitudine a dipendenza, è un continuum, un passaggio progressivo… È come un mucchio di sabbia che cresce, cresce fino a un certo punto e poi frana perché si sposta un solo ultimo granellino. Ma qual è il granellino che ha sbilanciato la costruzione della piramide di sabbia e l’ha fatta cadere?”.
Fea si dichiara piuttosto critico rispetto ai criteri diagnostici oggi adoperati per individuare una dipendenza non da sostanza: “È stato applicato il modello della dipendenza da sostanze ai comportamenti e quindi i criteri diagnostici del DSM IV e V sono stati traslati e applicati ai quei comportamenti che possono generare delle manifestazioni compulsive che vengono poi ascritti all’area delle dipendenze. A mio giudizio questo è un grossolano errore”. “Io credo”, prosegue, “che dal punto di vista della rilevanza clinica del problema, l’attenzione dello specialista e quindi la finalità del trattamento dovrebbero essere prioritariamente orientate a individuare le ragioni della perdita del controllo sul comportamento della persona, che può essere determinata da fattori come la storia personale, i suoi problemi, le sue propensioni, i determinanti biologici. Solo tenendo conto di tali fattori si possono correggere i danni generati da queste abitudini. C’è sicuramente una quota di persone che sviluppa una patologia, ma la patologia non sta tanto nel tipo di comportamento quanto nell’assenza di ragioni comprensibili alla persona stessa. Le ragioni sono quei processi mentali che danno significato alle cose, che permettono di fare sintesi e conferiscono senso, prospettiva e visione di insieme. Io non so perché mi comporto in quel modo: sento un impulso e lo seguo; finché non riesco a capire il significato di quell’impulso e qual è la ragione che mi induce quella cosa lì, sono a rischio di diventare dipendente”.
A causa del mondo che abbiamo creato e in cui viviamo, stiamo tutti sviluppando questo tipo di problemi di consumo compulsivo e il risultato è che siamo meno felici.
Su questo tuttavia Lembke non concorda: “Io credo che questa narrativa sia solo parzialmente vera. Se passiamo tutto il tempo a cercare il motivo per cui siamo diventati dipendenti senza cambiare i comportamenti e l’ambiente che favoriscono la nostra dipendenza, non stiamo facendo progressi. Smettiamola di cercare il trauma o la malattia mentale che sta causando la dipendenza, riconosciamo solo che siamo dipendenti perché viviamo in un mondo che ci rende tali e pensiamo a come cambiare il mondo invece di cambiare il nostro cervello o la nostra vita”. “Lo stesso meccanismo mentale che ci ha tenuti in vita per milioni di anni e ci ha aiutato ad avvicinarci al piacere ed evitare il dolore oggi non corrisponde al nostro ecosistema, e di conseguenza anche le persone che prima non erano vulnerabili al problema della dipendenza ora lo sono. A causa del mondo che abbiamo creato e in cui viviamo, stiamo tutti sviluppando questo tipo di problemi di consumo compulsivo e il risultato è che siamo meno felici”, prosegue la psichiatra statunitense.
Cosa possiamo fare dunque? Intanto cercare di capire se abbiamo un comportamento che sta diventando problematico. I campanelli di allarme sono tanti e diversi a seconda del punto dello spettro in cui possiamo trovarci: abbiamo bisogno di “dosi” sempre più potenti o frequenti? Abbiamo sintomi di astinenza, come quelli elencati da Martinotti? Siamo sempre concentrati su questo comportamento e altre cose che prima erano piacevoli ora non ci interessano? Notiamo conseguenze sulla nostra vita, o magari ci sono persone a noi vicine che ci fanno notare questo nostro comportamento? Una volta sospettato il problema, per verificare la nostra ipotesi il primo passo è eliminare quel comportamento dalla nostra vita per almeno trenta giorni. Questo infatti è il tempo minimo necessario per ripristinare i percorsi di ricompensa e l’omeostasi nel cervello ma anche quello per capire se il problema è il comportamento in se stesso o se invece c’è anche qualcos’altro.
Non si può delegare la soluzione del problema ai medici e agli interventi sanitari
“L’effetto collaterale negativo di dire ‘sono dipendenze tout court’ o ‘sono un problema sanitario’ è che maschera il problema di tutti quelli che non rientrano sotto l’ombrello della patologia e che non possiamo considerare indenni dai rischi”, avverte Maurizio Fea. “C’è una quota significativa di popolazione che, se continua ad essere esposta a questo tipo di stimoli, corre dei rischi che non sappiamo esattamente quali siano. Non possiamo concentrarci solo sui malati perché questo rischia di spostare l’attenzione esclusivamente verso la medicalizzazione, verso un piano di intervento puramente sanitario anziché di uno che sia anche sociale, economico e politico di regolamentazione dei servizi e dei prodotti che sfruttano il funzionamento dei percorsi dopaminergici del nostro cervello”.
E su questo, invece, Lembke è perfettamente d’accordo: “Nel caso dei cambiamenti climatici, il fatto che ciascuno di noi può intraprendere azioni individuali per non contribuire ulteriormente al problema non assolve governi, società e organismi di regolamentazione. Sarà necessario un approccio che contempli misure dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso per provare frenare il riscaldamento globale. Esattamente la stessa cosa vale per Dopamine nation: come individui possiamo e dobbiamo intraprendere un’azione individuale, ma questo non assolve i governi, le scuole o gli organismi di regolamentazione che devono cominciare a prestare attenzione a questi problemi nuovi e senza precedenti”.