Il grande e il piccolo schermo hanno più volte affrontato il tema dei disturbi del comportamento alimentare (Dca). Non sempre lo hanno fatto con successo e raramente ricordando che farlo porta con sé una necessità di realismo e concretezza. Infatti, anche se è vero che la settima arte è spesso onirica, altrettanto vero è, come sostiene Jean-Luc Godard, che “il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo”.
Per quanto riguarda i disturbi alimentare e la loro rappresentazione nei media, nel suo manuale Vero come la finzione Vol. 2: La psicopatologia al cinema (Springer, 2010), Matteo Balestrieri, Professore Ordinario di Psichiatria presso l’Università degli Studi di Udine, sottolinea come, almeno fino a qualche anno fa, a fronte di tanti film che assegnavano un valore specifico al cibo, fosse davvero esiguo il numero di quelli che disegnavano un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare. “Anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata evidentemente – scrive Balestrieri – non stimolano sceneggiature ritenute interessanti da registi e produttori”. Tuttavia negli ultimi anni la crescente attenzione ai disturbi del comportamento alimentare ha dato vita a un buon numero di film o serie sempre più curati e attenti nelle loro rappresentazioni, in grado di ricordarci che, al contrario di quanto dannosi stereotipi vorrebbero far credere, persone di ogni età, sesso, razza e background socioeconomico possono soffrirne.
Si stima infatti che ben 10 milioni di uomini e 20 milioni di donne soffrano di un disturbo del comportamento alimentare ad un certo punto della loro vita, che sia anoressia, bulimia nervosa, binge eating o un altro di questi disturbi che richiedono sempre attenzione medica e trattamenti specifici. Si tratta spesso di situazioni gravi, pericolose per la vita: di queste malattie muoiono infatti circa 3mila persone ogni anno in Italia. Ne abbiamo parlato altre volte sulle pagine di Senti chi parla e sappiamo che molte persone non ricevono l’aiuto di cui hanno bisogno e spesso non capiscono come questi problemi possano portare all’insorgere di altri, sempre legati alla salute, mentale e fisica.
Dunque oggi cinema e televisione possono aiutare ad aumentare consapevolezza e smontare stereotipi? Possono riuscirci quelle opere che cercano di restituire un’immagine onesta. Ci ha provato per esempio To The Bone, prodotto nel 2017 da Netflix con la regia di Marti Noxon che, come riporta The Guardian, ha in parte costruito il film basandosi sulla sua stessa esperienza con l’anoressia. Anche Lily Collins, che interpreta il personaggio principale, ha sofferto nella sua vita di disturbi del comportamento alimentare ed è forse anche per questo che il film risulta realistico e in grado di arrivare dritto al cuore dello spettatore.
Durante il Sundance Film Festival del 2017 la stessa Collins ha raccontato e condiviso questo difficile capitolo del suo passato: “Molte giovani donne ne soffrono e non deve esserci vergogna nel trattare questi argomenti. Il film invita a non rinnegare il passato e a capire che i disturbi di cui si soffre non definiscono chi sei, ma riguardano solo le esperienze che hai fatto. Condividere pubblicamente i racconti dei disturbi alimentari è stata una delle migliori esperienze di tutta la mia vita”.
L’attrice ha affrontato l’argomento anche nella sua autobiografia Unfiltered (Fabbri, 2017), la cui pubblicazione ha coinciso con l’uscita del film. All’inizio l’attrice temeva che parlare apertamente dei suoi problemi alimentari gliene avrebbe creati altri a livello lavorativo, ma poi ha deciso che invece quello era il modo migliore per superarli. Altrettanto utile per lei è stato proprio girare il film, come sottolinea in un’intervista rilasciata nel 2017 sul magazine Shape. “Sebbene fossi in recupero già da diversi anni, la preparazione per il film mi ha permesso di raccogliere informazioni sui disturbi alimentari da esperti. Per me è stata una nuova forma di guarigione. Ho avuto modo di sperimentarlo nei panni del mio personaggio, Ellen, ma anche come Lily”, racconta.
Se vogliamo trovare dei difetti a To the Bone, come notato anche dal Guardian, il principale è che non converge esattamente verso quella lotta agli stereotipi a cui facevamo riferimento inizialmente, presentandoci la maggior parte delle pazienti anoressiche come donne giovani, bianche e appartenenti alla classe media.
Molte giovani donne ne soffrono e non deve esserci vergogna nel trattare questi argomenti.
To the bone non è certo il solo film a provare ad affrontare con realismo il tema dei Dca: lo fa anche, ma in modo del tutto diverso, il documentario del 2016 Thin, basato sull’omonimo libro di Lauren Greenfield (Chronicle Books, 2007). Questo lavoro porta lo spettatore direttamente all’interno del Renfrew Center in Florida, considerato il miglior centro di trattamento per casi estremi di disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati (in inglese etichettati come Ednos), ortoressia, anoressia e bulimia. Tra le persone “pro-ana” (ovvero sostanzialmente a favore dell’anoressia) andare a Renfrew purtroppo è visto come una sorta di status symbol. Thin segue quindi veri pazienti del Renfrew mentre cercano di superare i loro problemi di alimentazione, a cui purtroppo si aggiungono inevitabili comorbilità. E poiché dal realismo passiamo concretamente alla realtà, senza dubbio si tratta di una delle opere più importanti in questo senso e anche uno dei più gravosi da guardare.
Come lo è anche FEMMEfille: la raccolta delle interviste della compianta Isabelle Caro, uno dei volti più famosi della campagna NO-Anorexia in Europa. I suoi nudi emaciati fotografati da Oliviero Toscani hanno avuto una diffusione capillare nel mondo e hanno centrato l’obiettivo di mostrare a tutti cosa accade quando si soffre di anoressia. Quando Caro ha capito che stava ormai per morire, ha rilasciato questa serie di interviste sulla sua situazione e più in generale sui disordini alimentari, raccolte poi nel film del 2015. “L’idea era di scioccare le persone per portarle alla consapevolezza”, aveva dichiarato Caro al tempo della campagna. “Ho deciso di farlo per mettere in guardia le ragazze sul pericolo delle diete e dei comandamenti della moda”.
Una situazione analoga è quella del docufilm Emma Wants to Live, la cui protagonista Emma Caris, realmente sofferente di anoressia nervosa, ha perso la vita proprio in seguito alla malattia. L’opera ci mostra com’è davvero la vita quando non sei in grado di costringerti a mangiare e riesce a far emergere la complessità dei disturbi del comportamento alimentare.
L’idea era di scioccare le persone per portarle alla consapevolezza.
Sembrerebbe dunque che ci sia una lunga lista di lavori cinematografici dedicati ai disturbi del comportamento alimentare e che quindi vi sia materiale in grado di raccontare questo grave problema di salute pubblica. Tuttavia la maggior parte dei film dedicati a questi problemi non arriva al grande pubblico, non è pensata per la grande distribuzione e per questo rischia di perdersi in una nicchia, di arrivare solo a chi li va a cercare per determinate ragioni magari personali.
To the bone è un’eccezione e per trovarne altre bisogna tornare indietro ad alcuni anni fa. Il primo che viene alla mente è il famoso Ragazze interrotte, del 1999, peraltro anch’esso al momento disponibile su Netflix. Il lungometraggio di James Mangold vantava un cast d’eccezione, con Winona Ryder e Angelina Jolie, ed era l’adattamento del diario di Susanna Kaysen La ragazza interrotta, pubblicato per la prima volta nel 1993 negli Stati Uniti (in Italia è pubblicato da TEA). Si tratta di un prodotto molto hollywoodiano e caratterizzato da un ritmo piuttosto scorrevole ed è uno dei meno realistici rispetto al tema dei Dca, e probabilmente anche uno dei meno adatti a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Lo è di più Thinspiration (Starving in Suburbia), film del 2014 di Tara Miele, in cui Laura Slade Wiggins interpreta Hannah, una ragazza di diciassette anni con la passione per la danza che, dopo essersi imbattuta nel sito internet Thinspiration, decide di dedicarsi al raggiungimento della linea perfetta restando intrappolata nella spirale dell’anoressia. Qui colpisce immediatamente la stoccata allo stereotipo di una malattia solo femminile data dalla presenza di personaggi maschili con disturbi del comportamento alimentare. Inoltre, in termini di realismo, nel film emerge piuttosto chiaramente come alcune persone all’interno dei movimenti “pro-ana” inducano a credere che l’anoressia sia una scelta di vita, minimizzandone le conseguenze e la pellicola ci fornisce in modo abbastanza credibile una panoramica delle modalità con cui la gente si ritrovi in determinate realtà. Per onestà bisogna ammettere che Thinspiration è forse eccessivamente critico verso la totalità di questi siti, commettendo l’errore di fare di tutta l’erba un fascio e minando quindi in generale la credibilità d’intenti.
In generale la maggior parte di queste narrazioni non porta con sé una valida diversità di storie, e molte di queste rappresentazioni sono cadute nella trappola del sensazionalismo. Ed è un peccato perché i mezzi di comunicazione, e quindi anche cinema e TV, possono diventare uno strumento importante per la promozione della salute e le strategie di prevenzione, come sottolinea anche un commentary di Morris et al. su Paediatrics & Child Health.
È per questo dunque che una narrazione realistica, attenta ed inclusiva diventa fondamentale per trasmettere messaggi anche su questo tema in maniera corretta ed efficace; soprattutto ora che la pandemia di Covid-19 ha portato ad un forte aumento dei disordini alimentari tra i giovani. “I casi di disturbi alimentari sono aumentati addirittura del 30 per cento, così come purtroppo della stessa percentuale è aumentato il tasso di mortalità”, ricorda Laura Dalla Ragione, psichiatra e presidente della Società Scientifica Siridap, pioniera in questo campo (noi avevamo a lungo chiacchierato con lei in questa occasione). Numeri che sottolineano l’importanza di rappresentazioni curate e veritiere per contribuire all’abolizione di pericolosi stereotipi e a una continua crescita qualitativa e quantitativa delle produzioni di genere.