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Luce e buio. Vivere l’esperienza della depressione perinatale


D. ha trascorso la sua prima gravidanza serenamente, con le difficoltà di una gravidanza ma nessun altro ostacolo che non fosse fisiologico. Adesso aspetta la sua seconda bambina, ma qualcosa non va, questa volta è diverso. Passa giornate intere a letto senza avere la forza di alzarsi, riuscendo solo a osservare sua figlia che guarda la televisione. Suo marito le sta vicino, è presente e di supporto, ma non capisce, non si spiega cosa stia succedendo a sua moglie. “Ma dai che sei forte! Sei brava, passerà, non pensarci”, queste le risposte che D riceve quando prova a spiegare che qualcosa non va, c’è qualcosa di diverso, qualcosa di irrisolvibile. Col passare dei giorni D. comincia a capire cosa le sta succedendo, si documenta e tramite le sue ricerche dà un nome al suo malessere: depressione perinatale.

La donna e lo stigma sono i protagonisti di questo racconto. La donna che in gravidanza, di fronte a una situazione diversa, non riesce a capire e sente di non poter superare quello che le sta accadendo. Ha difficoltà a chiedere aiuto e, quando finalmente ci riesce, è come se il suo dolore venisse sminuito, anche da chi sente più vicino. Lo stigma l’accompagna, inizialmente nella paura di parlare, nella vergogna di non riuscire a gestire questa seconda gravidanza al pari della prima, come se dovesse essere sempre invincibile. Ma lo stigma coinvolge tutti, anche coloro a cui si rivolge, che fanno fatica a capire, o forse non vogliono farlo.

Più o meno il 50 per cento di questi disturbi depressivi non viene riconosciuto, quindi c’è sicuramente una quota di donne che affrontano il disturbo da sole.

Per cercare di abbattere lo stigma bisognerebbe parlarne. Ogni gravidanza ha delle tappe ben precise e, se la donna è messa nelle condizioni economiche e sociali di seguirle, ad ogni trimestre può effettuare controlli che servono a prevenire l’insorgenza di certe patologie e soprattutto a intervenire per tempo, se necessario. La depressione perinatale interessa una fetta di popolazione anche superiore rispetto a quella di patologie come il diabete gestazionale o l’ipertensione, che riguardano circa il 10 per cento della popolazione femminile. Questo disturbo psichiatrico, che può insorgere durante tutta la gravidanza e fino a un anno dal parto, tocca infatti il 10-20 per cento delle donne. “Più o meno il 50 per cento di questi disturbi depressivi non viene riconosciuto, quindi c’è sicuramente una quota di donne che affrontano il disturbo da sole e così la depressione tende, nell’arco di diversi mesi, ad autorisolversi”, afferma Ilaria Lega, psichiatra ricercatrice presso l’Istituto superiore di sanità (Iss).

Dal maternity blues alla depressione perinatale

I primi 10 giorni dopo il parto sono il momento di maggiore instabilità emotiva, a causa della forte variazione ormonale sperimentata con il crollo degli estrogeni e del progesterone. Tuttavia è destabilizzante anche l’arrivo del neonato, il dare un volto a quelle paure, ed è forte il timore di non riuscire a soddisfare le sue richieste, istanze che prima erano soddisfatte dalla coesistenza simbiotica di madre e figlio.

Ed è in questo periodo che il 50-80 per cento delle donne sperimenta il cosiddetto maternity blues, proprio a causa di questi aspetti psicologici, sociali e dei mutamenti ormonali. Come ci spiega Ilaria Lega, “il maternity blues viene considerato fisiologico. Tra questo e la depressione perinatale c’è una sovrapposizione di alcuni sintomi, dunque l’elemento centrale è un po’ la durata perché questa reazione si spegne da sola nel corso di due settimane. Se i sintomi invece perdurano allora potrebbe esserci l’insorgenza di una depressione. Anche per questo è molto importante che le donne siano informate: devono sapere che il maternity blues esiste, è frequente e che non c’è da preoccuparsi, ma anche che se questi sintomi perdurano nel tempo è necessario un colloquio clinico, chiedere aiuto, parlare con qualcuno”.

Il maternity blues è una condizione caratterizzata da pianto, tristezza, ansia, rabbia, pensieri negativi verso il neonato e scarsa progettualità. “È una fase di breve durata, caratterizzata da sintomi lievi, con un impatto minimo sul funzionamento sociale e personale delle donne che tende a risolversi in modo naturale”, conferma Gabriella Palumbo, psicologa, psicoterapeuta e ricercatrice all’Iss. “Tuttavia, se c’è un ampio divario tra le aspettative o le risorse e la realtà della maternità, si possono verificare situazioni di sofferenza psichica per la donna e per la coppia, che talvolta potrebbero portare alla comparsa di sintomi psicopatologici nella madre e ad effetti a breve/lungo termine sulla salute del bambino”. Trattandosi di una sintomatologia lieve non è necessario un intervento terapeutico, quanto piuttosto un’opera di informazione e sensibilizzazione sulla natura del disturbo, che promuova un idoneo supporto familiare, in vista sia del potenziale impatto negativo del maternity blues nel tempo, sia dell’eventualità di sottovalutare un quadro clinico più grave: la depressione perinatale.

È una fase di breve durata, caratterizzata da sintomi lievi, con un impatto minimo sul funzionamento sociale e personale delle donne che tende a risolversi in modo naturale.

I sintomi della depressione perinatale sono più intensi e duraturi. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, colpisce, con diversi livelli di gravità, circa il 10 per cento delle donne in gravidanza e circa il 13 per cento delle neo mamme ed esordisce generalmente entro tre mesi dalla nascita del figlio. Recenti studi condotti in Italia hanno mostrato una prevalenza della depressione del 6,4 per cento durante la gravidanza e del 20,3 per cento nel periodo postnatale”. A parlare è Laura Camoni, psicologa, psicoterapeuta e ricercatrice presso il Centro di riferimento per le Scienze comportamentali e la salute mentale dell’Iss, mostrando come i dati riguardo questa sindrome non sono univoci. “È necessario sottolineare che gli studi condotti in Italia e a livello internazionale per stimare la depressione prima e dopo il parto evidenziano stime molto differenti, soprattutto per motivi metodologici. Diverso è infatti il periodo di tempo considerato nella definizione di depressione post partum (4 settimane, 3, 6, 12 mesi), diverso è il momento in cui viene effettuato lo screening (in gravidanza, al parto, dopo il parto), diverso è lo strumento utilizzato per lo screening, diversa la modalità di somministrazione e i cut-off utilizzati. C’è quindi una grande necessità di uniformare queste variabili per avere dei dati solidi e confrontabili tra di loro”.

Dalla familiarità ai determinanti sociali

Nonostante la depressione perinatale riguardi circa una donna su cinque, la cultura continua a condizionare il modo in cui si vive la gravidanza e porta alla nascita di aspettative negative. “Accade spesso di convivere con aspettative poco realistiche che si rivelano fonte di pensieri negativi. Ad esempio, si pensa che le donne in gravidanza siano sempre felici, che la vita non cambierà, che avere un bambino migliorerà il matrimonio, che si saprà istintivamente come occuparsi del bambino, che c’è qualcosa di sbagliato se non si riesce ad affrontare la situazione”, ci dice Gabriella Palumbo. Le aspettative negative di cui parla sono tra i determinanti della depressione perinatale, che unite a una scarsa rete di supporto, a cominciare dalla famiglia ma anche e soprattutto quella formata dagli operatori sanitari, incidono sull’insorgenza della depressione che, se presa per tempo, potrebbe manifestarsi in forme meno gravi e con minori conseguenze sulla mamma e sul neonato.

Ma i determinanti sociali sono anche altri, come spiega Ilaria Adulti, medico di formazione specialistica presso l’Uoc Psichiatria e psicologia clinica del Policlinico Tor Vergata: “Tra i fattori di rischio più associati alla depressione perinatale dobbiamo citare innanzitutto la familiarità psichiatrica, quindi l’aver avuto un parente stretto che ha sofferto di un disturbo psichiatrico. Inoltre, un aspetto che vale la pena di indagare è sicuramente rappresentato dal trauma: l’aver subito un trauma durante l’infanzia è un enorme fattore di rischio per tutti i disturbi psichiatrici. E molto spesso riaffiora alla memoria soprattutto durante la gravidanza che è di per sé un periodo bello, ma anche particolarmente fragile”.

Dovrebbe invece passare il messaggio che la salute mentale è fondamentale, non solo durante il periodo della gravidanza.

Non si tratta solo di traumi e familiarità psichiatrica, ci ricorda Gabriella Palumbo, ci sono anche molti altri determinanti come quelli “sociali, psicologici, comportamentali, ambientali e biologici che influenzano la gravidanza e il percorso postnatale. Episodi di ansia e depressione durante la gravidanza, precedenti malattie psichiatriche, problemi di relazione con il partner, mancanza di supporto sociale, problemi economici, violenze subite ed eventi stressanti sono tra i più importanti fattori di rischio. È pertanto, fondamentale identificare le complicazioni mentali perinatali dall’inizio della gravidanza al fine di ridurre i sintomi e prevenire un episodio post partum attraverso lo sviluppo di percorsi individualizzati dedicati a promuovere la salute mentale della mamma-bambino, che tengano conto anche del partner e del contesto familiare e sociale in cui sono inseriti”.

Gli effetti sul neonato

La depressione perinatale può avere vari livelli di gravità, in quelli più gravi si può verificare anche la perdita dell’attaccamento affettivo. “Dopo la nascita ci possono essere problemi nella creazione del legame di attaccamento, perché ovviamente la mamma depressa non è in grado di capire il significato dei segnali che il bambino lancia”, ci spiega Cinzia Niolu, responsabile dell’Uoc Psichiatria e psicologia clinica del Policlinico Tor Vergata. “Non sa interpretare bene che tipo di pianto è: se è un pianto da fame, un pianto da sonno, un pianto da mal di pancia. Si entra così in un circolo vizioso perché il bambino può capire che è inutile piangere, perché tanto dall’altra parte non arriva ciò di cui ha bisogno. Questo si chiama, per l’appunto, disturbo dell’attaccamento, per cui il bambino può andare incontro a uno stile di attaccamento insicuro”. Questo può diventare un fattore di rischio per disturbi psichiatrici successivi, che spesso insorgono nell’adolescenza. Un ulteriore fattore di rischio è che, a parità di gravità dello stato di malessere della madre, le donne con un reddito e un livello di istruzione più bassi hanno una maggiore probabilità che la loro depressione perinatale incida sulla salute mentale del figlio.

D’altra parte esistono fattori che possono moderare gli effetti della depressione perinatale sul neonato. Primo fra tutti una prevenzione che permetta di individuare e trattare tempestivamente la depressione della madre. Anche avere una buona rete di supporto, in grado di aiutare la madre ad entrare in relazione con il figlio, può migliorare significativamente gli esiti. Ad esempio, l’assistenza fornita dal team del Policlinico Tor Vergata: “abbiamo uno staff nel nostro ambulatorio SOS mamma composto da due psichiatri, medici in formazione specialistica, due psicologhe e un ginecologo. C’è anche una psicologa che fa l’home visiting, un tipo di supporto molto importante perché la mamma, il papà e il bambino vengono visitati nel loro ambiente, a casa”, spiega Niolu. “Quindi la psicologa in home visiting è in grado di rendersi conto di quali sono i comportamenti dentro casa, perché, ovviamente, un conto è venire nello studio nell’ambulatorio, un conto è valutare, appunto, come viene cambiato il bambino, come viene fatto il bagnetto, com’è l’interazione, la pappa. Ci sono tante cose da osservare”.

L’importanza della prevenzione

In Italia abbiamo la fortuna di avere, un servizio dedicato alla maternità, ossia i consultori familiari, che forniscono un supporto sia per la gravidanza fisiologica sia per riconoscere un disagio lieve e possono anche attivare una rete più specialistica che può servire per i casi più seri”, continua Lega. Ma gli stessi specialisti, da soli, possono fare prevenzione, innanzitutto tramite il riconoscimento dei segni e dei sintomi.

L’individuazione o anche solo il sospetto di una possibile depressione, potrebbero aiutare la donna a cominciare un percorso di cura già dal primo trimestre. “Lo screening sarebbe importante farlo già dal primo trimestre di gravidanza – conferma Niolu – cioè nel momento in cui la donna comincia a entrare nel circuito dei controlli di routine. Soprattutto perché se la depressione è lieve basta anche una psicoterapia, una terapia di sostegno, una terapia di coppia oppure anche in gruppo. Funzionano molto bene i gruppi perché si crea una rete di sostegno per cui anche l’idea di non essere in grado di essere madre viene un po’ stemperata dalla condivisione. In altri casi, invece, è necessario affrontare la terapia farmacologica”.

Di routine per lo screening delle malattie mentali esistono già dei test che con poche brevi domande potrebbero aiutare lo specialista a fare diagnosi, ma, a differenza delle analisi del sangue e in generali dei diversi accertamenti che si fanno in gravidanza, non ci sono delle linee guida che ne regolino la somministrazione. La mancanza di linee guida non è l’unico ostacolo. Anche quando uno specialista li adotta, spesso sono le stesse donne o i loro compagni a rifiutarsi di compilarli. “Se viene somministrato un test insieme a quelli per la valutazione della sintomatologia di base oppure dell’andamento della gravidanza, nessuna donna si sente matta”, conclude Cinzia Niolu. “Le donne tendono a dirci che non hanno bisogno di farlo, e può essere anche vero, ma il problema c’è quando una donna sente di avere qualcosa e magari se ne vergogna o ha paura di venire etichettata. Dovrebbe invece passare il messaggio che la salute mentale è fondamentale, non solo durante il periodo della gravidanza”.

Questo articolo fa parte di una serie dal titolo “Mind the GAP. Che genere di Salute Mentale?”, un progetto di Think2it realizzato con il supporto di