Al Toronto International Film Festival è stato presentato 76 Days, il primo lungometraggio sulla pandemia di coronavirus. Girato da Hao Wu, Weixi Chen e da un filmmaker che ha preferito firmarsi così: “Anonymous”. Settantasei giorni, come il tempo del primo lockdown imposto alla città di Wuhan, dove il film è ambientato.
Il documentario si concentra su quattro diversi ospedali della città in cui la malattia è stata identificata per la prima volta. Prima protagonista è la sensazione di chiusura: di edifici ospedalieri presidiati e interdetti alla maggioranza dei cittadini e di una città deserta. Come ha scritto David Sims su The Atlantic, la sorpresa maggiore è però la distanza tra le emozioni trasmesse dal film e quelle provate ancora in questi giorni dai cittadini statunitensi (ed europei): in Cina si guarda alla pandemia come ad un dramma vissuto e superato, mentre l’altra parte del mondo sta ancora attraversando la tragedia.
Le prime scene sembrano quelle di un film di George Romero: operatori ospedalieri che si barricano dietro le porte dell’ospedale respingendo pazienti che si lamentano di quanto faccia freddo là fuori. È il disperato tentativo di fermare la diffusione del virus. Non ci sono voci fuori campo, c’è poco da spiegare. 76 Days – ha commentato Peter Bradshaw sul Guardian – “non è un documentario incisivo sull’epicentro della pandemia covid-19: forse un film del genere arriverà più lentamente del vaccino, ma è una storia potente e umana, ritratto di una città sotto assedio”.
Le immagini sono uno strumento potente, ha osservato Sarah Elizabeth Lewis sul New York Times: “possono aiutarci a comprendere più a fondo la gravità della situazione mentre lavoriamo per arginare il virus”. “Ma le immagini di cui abbiamo più bisogno in questo periodo sono difficili da trovare”, faceva notare Neil Genzlinger sullo stesso quotidiano. “Ho pensato a Maurice quando un amico che vive a Milano, che è stato tra i primi casi di coronavirus diagnosticati in Italia, mi ha inviato questo sms a marzo: ‘Se le persone potessero vedere com’è negli ospedali, starebbero a casa’”. Maurice era un famoso critico fotografico statunitense, morto nel marzo scorso probabilmente a causa del coronavirus nella sua casa nel New Jersey.
È una storia potente e umana, ritratto di una città sotto assedio.
Delle molte narrazioni che riguardano covid-19, una tra le più pervasive vuole che il virus non sia così pericoloso per la maggior parte delle persone: “76 Days è un’istantanea della realtà, ambientata in spazi in cui tutti sono ammalati per la malattia o lottano per curarla” leggiamo nel commento della Lewis. “Il documentario costituisce solo un pezzo di un quadro molto più ampio, ma è comunque un frammento vitale. (…) Tuttavia, mentre vedremo le città chiuse e le strade vuote, rimarrò concentrata sull’assenza di qualcos’altro: un archivio visivo rappresentativo dello sbalorditivo bilancio umano della crisi da cui potrebbero emergere, nel tempo, le nostre immagini emblematiche. Affinché la società possa rispondere in modi commisurati all’importanza di questa pandemia, dobbiamo vederla. Affinché possiamo essere trasformati da esso, deve penetrare i nostri cuori così come le nostre menti”.
Questo archivio inizia a prender forma, grazie a contributi anche italiani come ha dimostrato per esempio l’ultima edizione del festival Cortona on the move. Assente immotivato nella città toscana, il reportage del giornalista e fotografo Claudio Colotti, che ha passato giornate intere all’interno dei reparti covid-19 dell’ospedale universitario di Torrette di Ancona: il suo reportage è uscito su INK ed è integralmente online. “Ho preferito contestualizzare il mio lavoro fotografico all’interno dei reparti covid-19 perché sentivo che quelli erano i luoghi apicali di solitudine, paura e dolore”, spiega a Senti chi parla. “Sentimenti che, in misura ampiamente ridotta, tutti i cittadini stavano sperimentando al chiuso delle proprie abitazioni, ma che a mio avviso non giustificavano i sempre più crescenti segni d’insofferenza di alcuni segmenti della popolazione nei confronti delle restrizioni imposte dal lockdown. Volevo, da un lato, che questo mio lavoro servisse a responsabilizzare le persone, far capire loro quanto insidioso e crudele fosse il coronavirus per i pazienti ospedalizzati, costretti ad affrontare una malattia ignota e mortale lontani dai propri affetti. Dall’altro, che emergesse lo strenuo impegno degli operatori sanitari di colmare questa lacuna affettiva attraverso gesti empatici, parole e carezze capaci di passare attraverso il freddo anonimato imposto dai necessari sistemi di protezione. Perché comunque la cura è necessariamente ascolto e dialogo”.
Desideravo che il mio stile fotografico tanto asciutto e ruvido facesse da contraltare alla dolcezza delle carezze e degli abbracci che gli operatori sanitari dispensavano ai pazienti.
Messi di fronte alle immagini di ciò che è accaduto, di quello che sta ancora accadendo, anche i numeri e le statistiche fanno un effetto diverso. Si dice spesso di quanto siano grezzi i numeri, fredde le cifre, ma il graffio di una fotografia può essere certamente più profondo: “Desideravo che il mio stile fotografico tanto asciutto e ruvido facesse da contraltare alla dolcezza delle carezze e degli abbracci che gli operatori sanitari dispensavano ai pazienti covid-19” prosegue Colotti. “Gli affetti ritratti da me sono definitivamente impressi nello spazio fotografico, tuttavia se avessi adottato un linguaggio meno rigoroso e più emozionale l’intero lavoro avrebbe assunto una dimensione troppo estetica. Sicuramente sarebbe risultato più «bello» e digeribile ma al contempo anche rassicurante e consolatorio. In una parola: deresponsabilizzante. Quando l’estetica prende il sopravvento il rischio è che vengano meno i contenuti e con essi la capacità di un reportage di rivolgersi alla sfera razionale del lettore. Per un fotogiornalista, fotografare il dolore ha senso solo nell’ottica di far sentire il fruitore di quegli scatti un cittadino responsabile. Prima ancora di commuovere, sento il dovere di muovere il fruitore verso l’assunzione di idee e comportamenti socialmente utili alla collettività”.
Colotti ha trascorso intere giornate nei reparti, scattando talvolta alla cieca dietro la visiera appannata e spesso non riuscendo a riconoscere gli operatori che si muovevano intorno a lui. Sempre, però, cercando di conoscere e memorizzare sia le storie di medici e infermieri, sia quelle dei malati. Le fotografie sono sempre accompagnate da un commento, un appunto che è molto più di una didascalia. “Il suo misurato intervento tecnico non si vede ma si sente – ha commentato il neurologo e fotografo Francesco Nonino nel testo introduttivo al portfolio di INK –, sottolineando il clima e le atmosfere, aiutandoci a comprendere che cosa ci sta raccontando ciascuna immagine”. L’empatia con cui Colotti si accosta al setting della cura richiama il lavoro di grandi autori come Eugene Richards, con le sue scene da un reparto di medicina d’emergenza. “Penso che la cosa peggiore per molti [fotografi], o certamente per me stesso – confessò Richards al British Journal of Photography – sia il fatto che, non importa quello che vedi, sai sempre che puoi andartene. Se sei vicino a persone affamate, avranno ancora fame quando tornerai a casa. Questa è la parte più difficile. Non è una bella sensazione da provare, è una sensazione abbastanza egoista”.
Cambiamo città: Patrick Schnell è un pediatra, con la passione della fotografia. Il suo reportage è stato realizzato nel Mt Sinai Hospital di Brooklyn, New York. “Il vantaggio di essere medico mi ha permesso di sapere in anticipo i movimenti degli operatori durante alcune procedure, così da poterle meglio riprendere”, ha spiegato al New York Magazine. Una serie di immagini che ci conduce – ci spinge? – all’interno del caos, del dolore, della morte. Forse per effetto del colore, scelta che non è stata la stessa di Colotti. “Nella natura della fotografia c’è una componente descrittiva insopprimibile. Se il fotogiornalista è intellettualmente onesto uno scatto è sempre la testimonianza di uno spazio e di un tempo passati a prescindere dallo stile più o meno contrastato, dal fuori fuoco o dal mosso. A patto che questi ultimi non siano deliberatamente cercati al fine di spettacolarizzare e drammatizzare la rappresentazione. Il bianco e nero, a differenza del colore, ha il vantaggio di rendere tutto più essenziale e privo di quegli orpelli cromatici che potrebbero distrarre il fruitore rispetto al contenuto della fotografia. Questo non significa che il colore è meno adatto a raccontare la realtà, ciò che conta è che in fase di realizzazione l’autore non si lasci suggestionare da come dialogano i colori all’interno del frame ma rimanga concentrato sul fatto che vuole raccontare senza cedere a derive estetizzanti. Cercare la bellezza estetica nella malattia, nel dolore e nella povertà solleverà sempre dubbi etici e morali sull’operato di ciascun fotogiornalista”.
I settantasei giorni sono diventati molti, troppi di più. È strano per noi che il documentario cinese presentato a Toronto – così crudo e terribile che un critico cinematografico del New York Times si è rifiutato di vederlo – abbia una conclusione, un lieto fine: come lo aspettiamo. In queste settimane di preoccupazione, però, facciamo nostre di nuovo le parole della Lewis: “è un sollievo vedere che quegli sforzi funzionano davvero”.