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Chi ci cura è aggiornato?


Dopo 355 anni di successi, iniziano ad arrivare i problemi. Justin Fox – editorialista di Bloomberg e già direttore della Harvard Business Reviewsta scrivendo delle riviste scientifiche. La precisione della cronologia è dovuta al fatto che molti fanno risalire al 1665 l’inizio di una storia di successo: alla nascita del Journal des sçavans (un modo antico per definire i sapienti in francese, les savants). Le ragioni della crisi, invece, sono nelle inquietudini che hanno iniziato a caratterizzare un ambiente – quello del medical publishing – che sull’affidabilità dei propri sistemi di controllo di qualità dell’informazione ha costruito il suo successo. Anche economico.

Come altre voci critiche che si sono alzate negli ultimi mesi, anche Fox sottolinea il ruolo di covid-19 come fonte di innesco di un’esplosione solo annunciata negli anni scorsi: un numero impressionante di articoli pubblicati ha contribuito a generare conoscenze fondamentali per contrastare l’emergenza sanitaria. Ma non sono mancati danni collaterali: la conferma della vulnerabilità anche delle riviste più prestigiose (e delle istituzioni che le gestiscono) e il disorientamento del medico di fronte ad un’offerta di informazione così ricca. Rispetto alla prima questione, secondo il New York Times, tra le vittime più prestigiose di covid-19 occorre aggiungere due riviste di assoluto prestigio: il Lancet e il New England Journal of Medicine. Sono state protagoniste di due clamorosi errori, avendo pubblicato due finti studi basati su dati completamente inventati: se dei ricercatori esterni alla rivista si accorgono di errori che sono sfuggiti ai referee, vuol dire che la rivista ha fallito, ha commentato Jerome Kassirer, in passato tra i grandi direttori della rivista. “E perdere la credibilità è più facile di riconquistarla.”

“Sulla stessa rivista – restiamo al New England Journal of Medicine, realmente un settimanale di medicina generale tra i più prestigiosi del mondo – si possono leggere gli articoli più utili e i più pericolosi” osserva Stefano Cagliano, medico di pronto soccorso. “Ma gli esempi di riviste che alternano buona o cattiva qualità sono innumerevoli: la questione non è solo se fidarsi, ma come imparare a fidarsi o – meglio – come imparare a leggere gli articoli. L’alternativa è obbedire a qualsiasi cosa ci venga proposto: l’eclisse della ragione.”

Ma il medico è capace di valutare criticamente un articolo scientifico che presenta metodi e risultati di uno studio clinico? “Spero ci sia un premio per una risposta così insidiosa” dice Cagliano. “Rispondere «no» significherebbe stendere un velo pietoso sulla cultura di chi cura la nostra salute. Affermare il contrario, però, sarebbe eccessivamente ottimista. Credo che la probabilità che un medico sia mediamente capace di valutare i materiali e metodi di uno studio sia abbastanza bassa. Potrei azzardare il 30-40 per cento dei clinici ospedalieri e il 10-20 per cento dei medici che curano l’assistenza domiciliare.”

La preparazione di un medico dipende dalla sua consapevolezza della necessità di essere aggiornato.

Ma da cosa dipende questa variabilità? Dal tipo di formazione che il medico ha ricevuto? Dalla sua voglia di imparare? “A mio parere dipende soprattutto dall’essere consapevoli del problema, cosa non molto frequente e divenuta ancora più rara negli ultimi dieci anni” risponde Lucio Patoia. “Questa consapevolezza deriva dalla formazione avuta. Ad esempio la consapevolezza è maggiore per gli specialisti delle discipline mediche, e tende a ridursi nel caso degli specialisti delle discipline chirurgiche. Nell’ambito della formazione ricevuta giocano un ruolo fondamentale i maestri che, nel corso di laurea e nella formazione specialistica, hanno sottolineato l’importanza di una valutazione critica dei risultati della ricerca scientifica. La parte relativa di formazione durante il corso di laurea è, nella mia esperienza personale, in progressiva riduzione: mancano, nelle facoltà che conosco, corsi specifici e la discussione sui temi della valutazione critica è, come ho detto, meno frequente. D’altro canto il metodo del critical appraisal delle evidenze si impara nella sua completezza solo se si pratica, sotto la guida di un maestro o di un tutor, e questo non facilita la possibilità di esercitarsi in modo adeguato leggendo i resoconti di studi controllati randomizzati e altre fonti di evidenze durante il corso di laurea.”

Sia le parole di Cagliano, sia quelle di Patoia – direttore della struttura complessa di Medicina interna dell’ospedale San Giovanni Battista di Foligno – tracciano una sanità a pelle di leopardo in cui la preparazione dei professionisti potrebbe essere diversa non soltanto in base al territorio, ma anche al loro ambito di attività. Insomma: per un cittadino che deve curarsi non è esattamente una notizia tranquillizzante. “L’esperienza negativa è particolarmente rilevante da quando faccio il primario di Medicina interna” precisa Patoia. “Impossibile generalizzare, perché esistono differenze, anche notevoli, in realtà diverse. Quando lavoravo in un ambiente universitario, esisteva semmai il problema opposto: la discussione un po’ snob sui limiti di questo o quello studio, con il risultato di un sostanziale nichilismo che non solo non consentiva, se non raramente, di tirare conclusioni condivise ed utili per la pratica clinica, ma costituiva la condizione favorevole per far entrare nella pratica clinica molte delle proposte dell’informazione da parte dell’industria, proprio perché quando nulla è valido tutto diventa plausibile.”

Ma come ci si sente quando ci si accorge delle carenze nella preparazione di un collega? “Nella mia esperienza di primario in un reparto ospedaliero soffro molto le lacune nell’aggiornamento dei miei colleghi, lacune alle quali io dovrei cercare di porre rimedio” spiega Patoia. “È constatazione piuttosto frequente, anche perché la Medicina interna è molto vasta e si può essere preparati in un campo e meno in un altro. Tuttavia, il mio compito è difficile e talora frustrante in quanto il pesante carico di lavoro e la carenza di personale negli anni hanno reso l’aggiornamento opzionale e quindi non tutti sono sufficientemente consapevoli delle proprie carenze.”

Una lettera aperta inviata di recente da Filippo Anelli – presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri – al ministro della Salute Roberto Speranza chiedeva di “assicurare fondi per garantire processi di aggiornamento professionale efficaci e mirati anche attraverso l’utilizzo delle moderne tecnologie” in quanto – proseguiva Anelli – “sono le competenze che consentono di raggiungere l’obiettivo di rispondere efficacemente alle esigenze di salute delle comunità.”

Però, gli ostacoli ad un’attività di formazione capillare ed efficace sono diversi, sostiene Patoia. “L’organizzazione aziendale di ogni dimensione e tipologia, cioè sanitarie pure o universitarie-ospedaliere – è completamente disinteressata alla formazione continua dei propri dipendenti medici clinici. Ritengo questo aspetto il determinante più grave, segno tangibile di una schizofrenia afinalistica curabile solo con un ripensamento dell’aziendalismo in sanità. Secondo, i servizi di formazione sono diretti da personale che non ha una qualifica precisa per questo lavoro, i corsi di aggiornamento sono aleatori e per lo più su temi irrilevanti, condotti con metodologia inadeguata, senza alcuna valutazione sull’efficacia delle iniziative di formazione e aggiornamento. Terzo, né i meccanismi aziendali premianti né quelli disincentivanti, né l’organizzazione dell’orario, né gli strumenti in mano ai primari consentono di promuovere l’aggiornamento. L’azienda persegue obiettivi formali (ad esempio si pensa al numero di corsi e non al tipo di corsi) e la scelta degli argomenti di aggiornamento non si basa sulle attività da svolgere o sulle carenze verificate in qualche maniera, ma sulla disponibilità di docenti o sulla simpatia del responsabile della formazione nei confronti di argomenti e docenti. Il ruolo dei Dipartimenti è nullo, poche le banche dati e manca la disponibilità di abbonamenti aziendali a riviste. Infine, la carenza di personale e gli orari molto pesanti, uniti al fatto che l’aggiornamento è lasciato, in base al contratto nazionale, in larga misura alla libera scelta del singolo medico, rendono difficili la realizzazione di riunioni, seminari, meeting, per la discussione ed il confronto comune.”

Promuovere la ricerca indipendente nel servizio sanitario darebbe un’importante spinta formativa.

L’analisi critica di Patoia – che ha una ricca esperienza formativa in diverse realtà sanitarie italiane – prosegue toccando un punto importante e trascurato: “la ricerca clinica indipendente, che è evidentemente di grande stimolo ad un aggiornamento continuo e di qualità, è di fatto bandita dalle aziende che ne misconoscono l’importanza e ne ostacolano l’applicazione in quanto comporta un aggravio di compiti burocratici, potenziali problemi assicurativi e di vario tipo normativo. Inoltre, stante la complessità raggiunta dalle richieste dei comitati etici, la ricerca clinica necessita di personale formato e dedicato simile a quello della Clinical research organization che non sono alla portata economica degli ospedali che volessero fare ricerca indipendente. Si fa solo, dove si fa, ricerca sponsorizzata, che non è utile in alcuna maniera all’aggiornamento.”

Va bene, anzi va malissimo. Ma ora che si parla solo di “ripresa” da dove ripartire per migliorare la situazione? “Raccomando sempre di non dimenticare che – come diceva Thomas McKeown – i servizi sanitari non possono essere migliori delle menti che li hanno concepiti” avverte Stefano Cagliano. “Così, di fronte ad un aumento delle responsabilità dei camici bianchi è essenziale che ci sia un adeguamento dell’educazione continua dei medici. Ma perché l’aggiornamento sia adeguato occorrono in primo luogo due cose: la correttezza dell’informazione e la sua disseminazione tra gli operatori e la popolazione.”
“Aggiungerei che il primario deve cercare di mantenersi aggiornato, al fine di fornire elementi di appropriatezza per la gestione clinica ma anche per far rinascere l’esigenza dell’aggiornamento, citando studi e novità, ed acquisendo l’autorevolezza che viene dalla riconosciuta competenza” sostiene Patoia. “Il primario deve darsi da fare per recuperare risorse di personale e miglioramenti lavorativi, al fine di rendere disponibili ai colleghi spazi temporali e mentali per far rinascere l’interesse all’aggiornamento, sepolto sotto il grande carico lavorativo. Una volta recuperato il tempo necessario, la disponibilità psicologica dei colleghi ad aggiornarsi e fatto rinascere il gusto che c’è in ogni medico a leggere e crescere professionalmente, occorre dare spunti di metodo per l’aggiornamento evidence-based e lavorare su una educazione continua che nasca dalle esigenze sul campo. A quel punto sarà possibile organizzare forme «creative» di aggiornamento; noi tra ad esempio stiamo utilizzando Whatsapp e delle riunioni di reparto via web, fatte subito prima di cena, ciascuno da casa propria.”

Un medico può restare aggiornato leggendo le riviste scientifiche e usando strumenti che lo guidano nelle decisioni cliniche.

Sono passati 35 anni dal primo di una serie di articoliHow to keep up with the medical literature – in cui i maestri della medicina delle prove proponevano un metodo critico per usare le fonti documentali per mantenersi al passo delle conoscenze. Era la premessa per la nascita della evidence-based medicine. Ma oggi, cosa dovremmo suggerire ad un giovane medico per mantenersi aggiornato? “Posso rispondere solo per gli specialisti delle specialità mediche” precisa Patoia. “Ad un giovane medico specialista in una disciplina medica suggerirei anzitutto di cercare delle fonti adeguate (corsi, libri, articoli) per costruirsi delle basi metodologiche adeguate di valutazione critica della letteratura medico-scientifica. Poi consiglierei di leggere le grandi riviste di medicina generale dal NEJM al Lancet, dal JAMA al BMJ, perché il dibattito presente su queste riviste può affinare il critical appraisal. Accanto a queste riviste generaliste, consiglierei una o due riviste della propria specialità, una buona rivista di farmacologia clinica (per esempio The Medical Letter) e, due volte l’anno, un articolo di metodo su una rivista di epidemiologia o statistica. Le riviste di pubblicazione secondaria come Journal Watch o Evidence Alert sono senz’altro molto utili, ma per un giovane non possono essere l’unica fonte di aggiornamento. Le suggerirei di più ad un collega che conosca bene il critical appraisal ma che ha poco tempo a disposizione.

A proposito di poco tempo a disposizione: strumenti come UpToDate o Dynamed possono servire? Quali sono i loro limiti? “Conosco bene il primo ma non il secondo” spiega Patoia. “Utilizzo quotidianamente UpToDate, anche con la app sul telefonino, per la consultazione offline. Personalmente lo trovo molto utile per il clinico; la mia è una valutazione in assenza di conflitti di interesse, non sono tra gli autori dei capitoli, pago l’abbonamento personale. A mio parere ha il pregio di essere aggiornato, sufficientemente evidence-based e apprezzo molto che l’autore di ogni capitolo dica spesso il suo personale orientamento o scelta terapeutica/diagnostica laddove non ci siano evidenze sufficienti a guidare la scelta dichiarando esplicitamente che quello è il suo parere/scelta personale. Un altro pregio è che delle raccomandazioni è fornito il grado di evidenza e la forza anche se in maniera non ottimale rispetto ad altri grading presenti in letteratura. È uno strumento versatile perché si presta sia alla lettura dell’intero capitolo che all’utilizzo del solo summary and recommendations molto utile per un utilizzo quando vai di corsa. Infine, è didattico e completo perché uno stesso argomento viene presentato in capitoli diversi, da diversi autori e sotto differenti punti di vista e questo ne facilita la comprensione piena. I limiti sono nell’essere un testo di consultazione; non può essere esaustivo di un argomento del quale si è specialisti e non può essere sostitutivo della lettura delle riviste.”

Possiamo tirare alcune prime conclusioni. Primo, le istituzioni dovrebbero mettere i medici nelle condizioni di poter continuare a studiare. Poi, i professionisti più consapevoli dell’importanza dell’aggiornamento possono svolgere un ruolo fondamentale nel motivare i colleghi. Ancora, la capacità di lettura critica delle informazioni è essenziale per valutarne l’attendibilità e per costruire conoscenze che possono essere usate nella pratica clinica. Ma anche i cosiddetti point-of-care tool possono svolgere una funzione importante per sostenere il clinico nella decisioni.

Infine, un’ultima riflessione dovuta alla rilettura della prima delle guide degli Annals of Internal Medicine che raccomandava con forza che “la lettura dovrebbe essere ristretta agli articoli direttamente pertinenti la pratica clinica di ogni medico.” Ebbene, a distanza di 35 anni sappiamo che questa è sicuramente un’uscita poco felice: abbiamo bisogno di medici – ma non solo – con la mente aperta, curiosi, che sappiano accettare la sfida di affacciarsi in ambiti diversi dal proprio. Insomma, è proprio vero che anche la fonte più autorevole va sempre letta – e riletta – con uno sguardo critico…