×

Chi ci conosce meglio? Big Food e l’industria alimentare


“In questi prodotti c’è molto più di quanto non sia scritto nelle etichette e che tutto quello che loro fanno è molto più potente che sfruttare zuccheri, sale e grassi; quello che le aziende hanno imparato a fare è sfruttare i nostri istinti primordiali”. A parlare è Michael Moss, giornalista statunitense, premio Pulitzer nel 2010. I prodotti di cui parla sono gli alimenti industriali altamente lavorati e le aziende sono le multinazionali dell’industria alimentare. Ho intervistato Moss in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Hooked: Food, Free Will, and How the Food Giants Exploit Our Addictions in cui esamina come l’industria alimentare sfrutta i nostri meccanismi biologici, in particolare quelli che sono legati anche alle dipendenze da sostanze, per creare prodotti sempre più irresistibili.

Non è la prima volta che Moss se la prende con l’industria alimentare e ne svela i trucchi. Ne aveva già parlato nel suo libro precedente, del 2013, Salt Sugar Fat: How the Food Giants Hooked Us, tradotto in italiano da Mondadori con il titolo Grassi, Dolci, Salati. Come l’industria alimentare ci ha ingannato e continua a farlo. In quel volume Moss raccontava come queste aziende da decine di anni lavorano – sfruttando le tecnologie all’avanguardia – per mettere a punto prodotti che bilanciano perfettamente contenuti, appunto di sale, di grassi e di zuccheri per rispondere al gusto dei consumatori. Nel nuovo libro Moss prosegue il suo viaggio, ma dal punto di vista del cervello, dimostrando che se c’è qualcuno che veramente ci conosce, studia i nostri istinti, il nostro sistema nervoso è proprio Big Food.

Il punto di partenza di Moss è la domanda: questi alimenti possono creare una dipendenza? In realtà quello della Food addiction è un tema molto scivoloso. Su cui oggi ancora non c’è un consenso generalizzato nel mondo scientifico, come riporta bene un articolo del The New York Times riprendendo il dibattito tra due personalità come Ashley Gearhardt, professore associato di psicologia presso l’Università del Michigan, e Johannes Hebebrand, a capo del dipartimento di psichiatria infantile e della adolescenza dell’Università di Duisburg-Essen in Germania.

Secondo Gearhard – che ha anche contribuito a sviluppare la Yale Food Addiction Scale, un questionario che è usato a determinare se una persona mostra o meno un comportamento di dipendenza dal cibo – esistono alimenti in grado di dare una dipendenza paragonabile a quella data da altre sostanze come droghe, alcol, tabacco. Hebebrand non è della stessa opinione e sebbene alcuni alimenti possono sembrare irresistibili ad alcuni secondo il medico tedesco non provocano uno stato mentale alterato, caratteristiche tipiche invece delle sostanze che creano dipendenza. Lo scorso febbraio i due hanno pubblicato insieme sull’American Journal of Clinical Nutrition un paper in cui definiscono lo stato del dibattito, specificando ciò su cui c’è consenso e su cosa invece non si arriva a un punto di contatto.

Il consenso sembra esserci sul fatto che esista un tipo di comportamento alimentare simile a una dipendenza, che i meccanismi implicati nei disturbi legati alle sostanze e alla dipendenza contribuiscono all’eccessivo consumo di cibo e all’obesità e che alcune pratiche adoperate dall’industria alimentare per realizzare i propri prodotti contribuiscono al fenomeno. Rimangono tuttavia molti punti in cui non vi è accordo, per esempio sulla forza delle prove oggi esistenti che gli alimenti altamente trasformati creino dipendenza e su come sia possibile concettualizzare un certo tipo di alimentazione concettualizzare l’alimentazione come forma di dipendenza.

Non è tanto il cibo a creare una dipendenza, quanto il fatto che noi per natura siamo attratti dal cibo e che le aziende hanno cambiato la natura del cibo.

Tra le insidie del tema vi è sicuramente il fatto che non spiega come mai (quasi) ognuno di noi risponde in una certa maniera ad alcuni cibi e lo stesso autore nella nostra intervista sottolinea che “non è tanto il cibo a creare una dipendenza, quanto il fatto che noi per natura siamo attratti dal cibo e che le aziende hanno cambiato la natura del cibo”. E lo hanno fatto in modo da sfruttare al massimo questa attrazione e per potenziare quelle caratteristiche del cibo a cui siamo più portati a rispondere. Spesse volte, questo è vero, sono caratteristiche che vanno a colpire gli stessi circuiti di piacere e ricompensa che sono interessati dalla dipendenza da sostanze. Del resto è noto che per esempio, mi racconta Michelangelo Giampietro, Specialista in Medicina dello Sport e in Scienza dell’alimentazione e docente della Scuola dello Sport del Coni di Roma, che “la cioccolata ha sostanze che hanno un effetto stimolante il sistema nervoso centrale e per alcune anche analogo a quello delle sostanze oppioidi endogene prodotte dal nostro stesso organismo, che agiscono sul nostro cervello negli stessi punti, sugli stessi recettori delle sostanze cannabinoidi”.

“Esistono degli alimenti che proprio per le loro caratteristiche sono inevitabilmente invoglianti a un maggiore consumo”, prosegue il medico. “Le faccio un esempio: i prodotti dei fast food sono tendenzialmente dei prodotti morbidi, che non prevedono una masticazione particolarmente prolungata ed efficace. E questo già di per sé fa in modo che al cervello non arrivi il messaggio di sazietà che invece è frutto di una masticazione più prolungata. D’altra parte và soddisfatto il gradimento legato ai cibi croccanti, ed ecco qui che entrano in gioco le patatine, il rumore: il ‘crock’ ha un effetto psicologico che induce al gradimento, al piacere”.

Esistono degli alimenti che proprio per le loro caratteristiche sono inevitabilmente invoglianti a un maggiore consumo.

Pochi conoscono questo tipo di effetti biologici (come il senso di sazietà dovuto alla masticazione) e psicologici (il piacere del croccante) del cibo quanto le aziende alimentari che per studiarli e capire come approfittare si avvalgono di laboratori specializzati come consulenti. Ed è proprio questo forse quello che più colpisce del volume: la descrizione accattivante e chiara, uno dopo l’altro, di tutti quei meccanismi e istinti che ci rendono tanto propensi ad acquistare i prodotti industriali, tutti quegli esperimenti e ricerche che testimoniano una volta ancora che “l’appetito è nel cervello, non nello stomaco”. E la descrizone della sistematicità con cui l’industria alimentare disegna i suoi prodotti in modo da colpire uno dopo l’altro tutti questi nostri istinti.

Ma quali sono questi istinti e quali le caratteristiche vincenti? La prima di queste è la possibilità di ripetere innumerevoli volte il gesto che ci procura piacere: un sacchetto di patatine è un fonte di innumerovoli e continui istanti di piacere, quanto una confezione di biscotti. Il potere della ripetizione poi è in grado di creare un’abitudine e di portare a un gesto continuo non ponderato che porta a mangiare senza prestare attenzione a quello che si sta facendo.

Altra caratteristica chiave è la velocità. Anche tra le sostanze che creano dipendenza la velocità è importante: tanto più velocemente una sostanza entra nel circolo sanguigno e da lì arriva al cervello, maggiore è il suo effetto. Il tabacco percorre la strada dalla bocca ai polmoni al cervello in 10 secondi: dieci secondi dal momento in cui si pregusta il piacere a quello in cui si prova. Sale e grasso ci mettono poco meno di un secondo. Allo zucchero basta mezzo secondo, più o meno seicento millisecondi. “È circa venti volte più veloce delle sigarette”, scrive Moss. Questa velocità si spiega con il fatto che queste sostanze “barano”, come spiegato nel libro: hanno una corsia preferenziale diretta al cervello. La velocità è anche la caratteristica che guida l’idea dell’industria che il cibo – dolce, grasso o salato – deve essere sempre a portata di mano, in qualunque momento della giornata e ovunque (oggi, secondo Moss, circa un quarto delle calorie che assumiamo viene da snack e spuntini). Poi ci sono la memoria, la convenienza – siamo portati a preferire alimenti che non ci costa molta energia (o anche denaro) ottenere -, la consistenza, l’apporto calorico (che, a quanto pare, siamo in grado di percepire dalla lingua), il colore, la capacità di alcuni alimenti di ridurre lo stress o il dolore e, soprattutto, la varietà. Tutto ciò ha spiegazioni biologiche, fisiologiche ed evolutive.

Forse, molto di quanto descritto da Moss non è una novità assoluta, altri hanno provato a descrivere gli effetti di questi alimenti sul nostro corpo e cervello, ma arriva in un momento, in una società, in cui c’è una maggiore consapevolezza tra i consumatori. Ed è un libro, forse più rispetto ad altri precedenti sull’argomento, in grado di arrivare (anzi destinato) proprio a loro. È un libro diretto ai consumatori perché l’obiettivo – oltre ad attaccare forse un po’ troppo indiscriminatamente l’industria alimentare – è restituire a noi consumatori parte del potere: conoscendo questi meccanismi possiamo provare ad adoperarli a nostro vantaggio.

Il più potente meccanismo di cui possiamo riappropriarci è quello dell’abitudine: “ci piace ciò che mangiamo più di quanto mangiamo ciò che piace”, sottolinea più volte il giornalista statunitense. Per esempio quindi è fondamentale abituarsi il prima possibile ad alimenti che abbiano certe caratteristiche come un ridotto contenuto di sale o zucchero. “È chiaro che se io agisco fin dall’infanzia e non abituo i bambini al sale evitando di aggiungerlo nelle loro pappe e non li abituo al gusto dolce degli zuccheri semplici aggiunti in eccesso, parto con un vantaggio maggiore: il bambino non ricercherà quella percezione di piacere, probabilmente neanche nella fase dell’adolescenza o dell’età adulta quando poi subentrano consapevolezze diverse legate anche alla conoscenza del rischio per la propria salute che può derivare dal consumare un alimento piuttosto che un altro”, spiega Giampietro.

Ci piace ciò che mangiamo più di quanto mangiamo ciò che piace.

Fortunatamente il nostro cervello è plastico quindi le abitudini si possono acquistare anche in età adulta. Per esempio a perdere la predilezione per cibi particolarmente salati e grassi, cosa che ci permette anche di apprezzare di più la qualità del cibo e della materia prima. E quest’ultimo è un fattore chiave secondo Giampietro: “È vero che possiamo riappropriarci di questi meccanismi, ma dobbiamo essere in qualche modo aiutati: posso gradire delle verdure non salate, se le verdure sono buone e sanno del loro sapore naturale: se una zucchina non ha il sapore della zucchina e il peperone non ha il sapore del peperone perché coltivati in serra e acquistati fuori stagione mi viene molto più difficile. Il pomodoro di stagione, coltivato sulla pianta e raccolto al punto giusto di maturazione è buono di suo, non ha bisogno di sale o altre aggiunte. Dunque non è solo un problema delle multinazionali dell’alimentazione ma per esempio anche della distribuzione”.

Questo dell’accesso ad alimenti freschi, come frutta e verdura fresca è un punto importante, che sposta che amplia il raggio della questione. Certo vivendo in uno dei cosiddetti Paesi mediterranei, mi spiega Stefania Agrigento – a biologa nutrizionista, consigliera ADI Lazio Diabetologia (San Camillo Forlanini, Roma) -, siamo fortunati perché queste – come l’olio sono di casa – e non è altrettanto vero negli altri paesi; tuttavia anche da noi è crescente la tendenza che vede frutta e verdura di qualità, come quella menzionata da Giampietro, diventare progressivamente sempre più cara, un bene sempre più di lusso. E questo non favorisce i nostri istinti: a parità di costo, istintivamente io prediligerò un cibo più calorico, se il costo è superiore, la mia scelta sarà ancora più immediata.

Ci vuole un educazione nelle scuole, perché i bambini poi riportano quelle conoscenze a casa dai genitori, ma anche un’educazione nei confronti dell’’industria alimentare.

“Il discorso è molto ampio e molto complesso, bisogna partire da politiche sociali, educazione alimentare, dobbiamo orientarci sui legumi come fonte proteica, dobbiamo orientarci su cibi che hanno basso costo e che siano salutari. Ci vuole un educazione nelle scuole, perché i bambini poi riportano quelle conoscenze a casa dai genitori, ma anche un’educazione nei confronti dell’’industria alimentare che in Italia in parte già c’è”, spiega sempre Agrigento. “L’industria fa ricerca e pubblicità per spingere verso il consumo dei suoi prodotti. Altri hanno il compito di educare i consumatori e indirizzarli verso scelte alimentari consapevoli e salutari. Chi si occupa di alimentazione e di salute pubblica, come le società scientifiche o gli esperti che fanno parte di gruppi scientifici di lavoro all’interno delle aziende stesse, cerca sempre il dialogo e di lavorare con le aziende alimentari per cercare in qualche maniera di indurli a produrre alimenti e prodotti sempre più sani, anche sfruttando le tecnologie moderne che ce lo permettono”, sottolinea invece Giampietro. “Lei pensi a quanto sale c’era prima nei prodotti in scatola e quanto ce ne è oggi o all’uso dei conservanti”, prosegue facendo due esempi di come la pressione di consumatori e comunità scientifica hanno portato le industrie alimentari a sfruttare nuove tecnologie – e talvolta a innovare in maniera tale da sviluppare quelle tecnologie – per produrre alimenti con meno sale e meno conservanti.

“L’industria deve fare il suo mestiere e produrre alimenti che vengono acquistati ma io posso, come consumatore, spingerla a produrre alimenti che piacciono a me sia dal punto di vista del gusto sia dal punto di vista della salute”, conclude Giampietro, ricordando però che è perfettamente inutile bacchettare in maniera troppo rigida, come rischia un poco di fare Moss nel suo libro: “Serve che a parlare di queste cose siano persone veramente esperte, informate, che abbiano una visione ampia, non accondiscendente eccessivamente nei confronti delle aziende nemmeno però così rigida, alla Savonarola, nei confronti tanto delle aziende che dei consumatori”.