La pandemia ha messo il medico di fronte ad una pila di carta alta sette metri e fatta di articoli e documenti sul covid-19. La stragrande maggioranza di questi articoli è passata inosservata o non ha aiutato a curare la malattia. Addirittura, può aver avuto un impatto negativo. Medici e infermieri sono dovuti diventare “esperti” di questa nuova patologia a partire da informazioni parziali, talvolta costruite ad arte, molto spesso successivamente contraddette. “Le risposte sui trattamenti rimangono elusive in modo frustrante – scriveva Carolyn Y. Johnson sul Washington Post nell’agosto del 2020 – con una manciata di terapie di base supportate da prove e una corsa disordinata e imperfetta per estrarre informazioni su ciò che funziona da ciò che è stato somministrato a migliaia di pazienti. I regimi terapeutici variano da ospedale a ospedale e gran parte di ciò che viene offerto è supportato da suggerimenti e intuizioni, quello che le linee guida ufficiali sul trattamento chiamano knowledge gap”, dove stavolta il divario è fatto di un enorme buco conoscitivo.
Gli operatori coinvolti nell’assistenza hanno dovuto apprendere dall’esperienza: che sarebbe anche un’ottima cosa, se non ci fossero di mezzo le vite di milioni di malati e il burn-out psicologico ed emotivo dei professionisti sanitari. La buona notizia, però, è che negli ultimi mesi c’è stato un enorme aumento delle conoscenze, basate sia sull’adattamento delle pratiche utilizzate per trattare malattie virali simili, sia su nuove ricerche che hanno fatto sì che oggi la cura dei pazienti covid-19 possa essere considerata di migliore qualità rispetto ad un anno fa. “Sono rimasto sbalordito dal ritmo con cui i miei colleghi si sono adattati alle nuove informazioni anche se l’incertezza ha aggiunto un ulteriore peso psicologico a tutti gli altri imposti dalla crisi, ”ha scritto J. Niels Rosenquist sul New England Journal of Medicine (Nejm).
La pandemia ha davvero messo in luce tutte le debolezze che già sapevamo esistessero.
Questa condizione di incertezza si è riflessa anche nella relazione tra il curante e il malato, spiega Rosenquist: la capacità di rassicurare il paziente è essa stessa una forma di cura, ma è davvero molto difficile rassicurare se il medico stesso è disorientato dalle informazioni su cui dovrebbe basare le proprie scelte. Incertezza: parola chiave dei nostri tempi con cui è terribilmente difficile rapportarsi. Condizione rischiosa, per molte ragioni che vengono fuori anche da tante riflessioni sparse di chi la vive quotidianamente: “Tentando di raggiungere un senso di certezza troppo presto – scrivevano Arabella L. Simpkin e Richard M. Schwartzstein di nuovo sul Nejm a fine 2016 – rischiamo una chiusura prematura nel nostro processo decisionale, consentendo così alle nostre ipotesi nascoste e ai pregiudizi inconsci di avere più peso di quanto dovrebbero, con un potenziale aumento del rischio di errore diagnostico.”
Tornando a Rosenquist, nel suo commento evidenziava ancora una volta l’importanza di studi metodologicamente ben fatti che potessero dunque tradursi non solo in benefici di salute per il malato, ma anche in maggiore sicurezza per gli operatori e per il sistema sanitario. Sappiamo però che sostenere continuamente di vivere un tempo di guerra contro il virus non ha facilitato l’approccio razionale e sistematico alla cura, soprattutto nei primi mesi di emergenza sanitaria. “Ci sono molte cose su questa pandemia che sono state davvero impegnative, e non credo che nei primi giorni le persone apprezzassero davvero quanto fosse importante avviare studi clinici rigorosi subito sui trattamenti”, sottolineava nella prima estate di pandemia Kevin Schulman, professore di clinica medica della Stanford University, facendo notare che l’attenzione per lo sviluppo precoce di un vaccino ha forse distratto dagli studi rigorosi, controllati e randomizzati sui farmaci e su altri trattamenti potenzialmente utili per controllare covid-19.
Idrossiclorochina, plasma di convalescenza, anticorpi monoclonali e si potrebbe continuare: “Quello che è successo in questi mesi mostra chiaramente l’importanza dello studio randomizzato controllato con placebo”, ha detto Anthony Fauci. Questo tipo di indagine è quello che è maggiormente in grado di dare informazioni solide sull’efficacia di una terapia. Almeno in teoria, perché è comunque necessario valutare la qualità e il rigore metodologico di uno studio. “La pandemia ha davvero messo in luce tutte le debolezze che già sapevamo esistessero”, ha commentato invece Robert Califf, ex commissario della Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense che regola l’approvazione e l’utilizzo dei medicinali. Debolezze di sistema – la difficoltà di disegnare e avviare rapidamente studi di ampie dimensioni, multicentrici, che rispondessero a interrogativi di ricerca solidi e rilevanti per i pazienti – e difficoltà vissute in prima persona dai singoli professionisti, messi di fronte ad una marea montante di informazioni raramente di qualità accettabile.
La medicina delle prove è stata dirottata.
Da tempo sapevamo che una delle cose che avrebbe potuto migliorare è la capacità di medici, infermieri, farmacisti di “leggere” i risultati della ricerca clinica. Negli anni, le difficoltà sono aumentate e non diminuite. Soprattutto perché gli studi clinici sono costruiti in modo sempre più sofisticato e in molti casi la pubblicazione di metodi e risultati non è così trasparente da avvicinare realmente i lettori alle informazioni che contano. La medicina delle prove è stata dirottata, ha scritto John Ioannidis in una immaginaria corrispondenza con David Sackett – uno tra i padre della medicina basata sulle evidenze – e questo dirottamento ha finito col disorientare tutti: “Ora che l’Ebm e i suoi principali strumenti, studi randomizzati e meta-analisi, sono diventati molto rispettati, il movimento della medicina delle prove è stato dirottato. Anche i suoi sostenitori sospettano che ci sia qualcosa che non va. L’industria gestisce gran parte degli studi randomizzati più influenti. Li fanno molto bene, ottengono punteggi migliori nelle checklist che ne valutano la «qualità» e sono accettati e pubblicati più rapidamente. È solo che spesso partono da interrogativi di ricerca sbagliati a cui si dà risposta perseguendo esiti surrogati sbagliati, frutto di analisi sbagliate, basate su criteri sbagliati per la determinazione della positività dello studio – basti pensare agli ampi margini di non inferiorità – e inferenze sbagliate: ma a chi importa di questi piccoli difetti?”
Ecco: a chi importa di questi piccoli difetti? Al medico che fa una fatica sempre maggiore a distinguere il grano dal loglio. Tutto questo – ha scritto Daniele Coen nel libro L’arte della probabilità – aggiunge “un altro doloroso mattoncino alla nostra consapevolezza dei tanti elementi che influenzano il mondo della medicina, dove anche la frazione di conoscenze che appaiono scientificamente fondate rischia di diluirsi e di snaturarsi nell’incontro con il mondo degli interessi economici e personali.” Mattoncino che si aggiunge a molti altri, perché non sono solo le industrie a “dirottare” la Ebm ma anche molte istituzioni accademiche.
Il pantheon della letteratura medica ha mostrato crepe profonde, lasciandoci smarriti e in molti casi disarmati.
Queste dinamiche fanno pensare che possa essere cambiata la relazione di fiducia del medico nei confronti della letteratura scientifica, anche di quella – sulla base della storia delle riviste o della forza del suo impatto – considerata di maggiore qualità. In altre parole, il medico – sempre si possa generalizzare – continua ad avere la stessa stima nei confronti del Nejm, del Lancet o del Jama? Oppure sta aumentando la prudenza? “I meccanismi cognitivi che stanno alla base dei nostri processi decisionali – ci dice Fabio De Iaco, medico dirigente di Pronto soccorso a Torino – non differiscono tra loro, sia che ci riferiamo alla diagnosi o alla scelta della terapia sia, prima ancora, all’acquisizione di evidenze da introdurre nei processi decisionali stessi: tutti soffriamo di un bias di conferma e inconsapevolmente ci appoggiamo alle formulazioni assertive di una rivista scientifica. E se quel che leggiamo proviene da una testata altisonante ci sentiamo maggiormente autorizzati: l’autorevolezza della rivista ci conforta nella nostra scarsa capacità di analizzare criticamente metodi e conclusioni. La metanalisi del lavoro scientifico richiede competenze che mediamente non abbiamo e di conseguenza deleghiamo al board di Lancet o del Nejm. Ma il pantheon della letteratura medica ha mostrato crepe profonde, lasciandoci smarriti e in molti casi disarmati.”
Come se non bastasse la difficoltà di orientarsi nel campo dell’epidemiologia clinica e della statistica medica, l’accelerazione nella pubblicazione di articoli su riviste scientifiche variamente indicizzate ha messo in evidenza una realtà nota da tempo: non solo saper leggere con occhio critico metodi e risultati di un studio non è facile, ma sta diventando difficilissimo anche decidere cosa leggere e cosa, invece, mettere da parte. “Concordo”, dice Marco Vergano, medico di anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino. “Anzi, l’overload di informazione a cui siamo sottoposti – spesso senza il tempo e le competenze per giudicare criticamente – può portare alla diffusione di messaggi anche controproducenti, perché frutto di una iper semplificazione di alcune questioni, oppure di una sorta di critical appraisal fatigue – concedetemi il termine – in cui a volte senti colleghi con meno dimestichezza che dicono «prima leggiamo una cosa, poi il contrario, poi ci si capisce più niente» e liquidano la questione magari ignorando evidenze importanti, per il solo fatto che la questione è complessa e ci sono state evidenze discordanti negli ultimi mesi. A proposito di covid questo è avvenuto spesso, con gli steroidi, il tocilizumab, le strategie di ventilazione e potrei continuare…”
“Leggere criticamente i risultati di un trial non è facile – conferma Coen a Senti chi parla – perché, al di là di una generica valutazione dell’impostazione dello studio, gli aspetti statistici sono spesso complessi e non sempre alla portata dei non addetti ai lavori. È facile dunque che ci si limiti a leggere gli abstract e le conclusioni di un lavoro senza entrare nel dettaglio. Per questo l’attività di revisione degli articoli da parte delle riviste è così importante.” Ma da cosa dipende la capacità di valutazione critica del medico? “Di sicuro la formazione ha la sua importanza, sia la componente formale e universitaria, sia il processo di mentoring o il trovarsi in un ambiente dove è routine avere dei momenti in cui si discute e analizza letteratura. Penso per esempio all’attività di journal club”, spiega invece Vergano.
La fatigue da valutazione critica citata da Vergano ricorda quella sorta di “stanchezza bayesiana” di cui ha scritto Rosenquist nell’articolo sul Nejm: “una disforia indotta da stress che si sperimenta quando il corpus di conoscenze che si è acquisito negli anni o decenni e che è il fondamento del lavoro diventa meno importante delle informazioni che vengono raccolte da fonti disparate in tempo reale.” Bisogna attrezzarsi per fronteggiare queste difficoltà: “la curiosità, l’impegno e un poco di sano scetticismo aiutano” consiglia Vergano. “Nel mio caso ad esempio, mi ritengo un autodidatta e quindi ho molti limiti, soprattutto in ambito statistico e metodologico. Ma negli ultimi anni ho molto apprezzato il confronto con i colleghi e anche con diversi junior, che mi hanno fatto riscoprire che il processo di mentoring è bidirezionale: alcuni di loro sono davvero forti nell’analisi metodologica.” Lo scambio con i colleghi, poi, ha il vantaggio di potersi svolgere in spazi un tempo impensabili. “Penso che il successo di alcuni blog personali non sia affatto casuale, così come l’attività di micro-blogging portata avanti su piattaforme come Twitter da molti professionisti: il movimento dell’informazione scientifica gratuita e svincolata da regole editoriali può apparire anarchico e privo di legittimità scientifica, ma ha favorito la nascita di nuove autorevolezze, velocizzato la trasmissione delle informazioni, favorito il confronto diretto con l’esperto. Spesso rende l’aggiornamento più veloce e fruibile. E tuttavia il problema del rigore dell’informazione e della selezione delle fonti, ovviamente, resta inalterato.”
Mi ritengo più un impollinatore che un produttore di sapere.
Uno scambio più frequente e più serrato ha tantissimi vantaggi ma mette talvolta di fronte all’evidenza di problemi nell’aggiornamento di colleghi: lacune, pregiudizi, rimozioni. Cosa si fa in questi casi? “È una cosa che capita frequentemente”, prosegue Vergano. “Non so quale sia la strategia corretta onestamente, credo ci voglia sempre rispetto per le attitudini e sensibilità altrui. Nel mio caso, ho alcuni argomenti (non solo di etica clinica) su cui «spingo», nel senso che riempio di materiale gli specializzandi che fanno rotazione nel mio reparto, mando ogni tanto ai colleghi letteratura selezionata che ritengo interessante, aggiorno il gruppo di studio di bioetica della Società di anestesia rianimazione e terapia intensiva o gruppi su Facebook regionali di colleghi. Mi ritengo nel mio piccolo più un «impollinatore» che un «produttore» di sapere medico.”
A proposito di incertezza, qual è l’atteggiamento di un medico riguardo le aree grigie della conoscenza? Come si rapporta, in poche parole, con i propri dubbi? “Per prima cosa il medico deve capire se la sua è incertezza o ignoranza”, avverte Daniele Coen, che per molti anni ha diretto il pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano. “Quindi deve tornare sui libri ad ogni caso complesso che incontra per essere certo di sapere quello che è necessario sapere. Poi deve coinvolgere i propri pazienti ogni volta che questo sia possibile, per prendere le proprie decisioni anche in funzione dei loro valori e dei loro bisogni: «Mi opero o no? Prendo l’antidepressivo? Accetto la terza linea di chemioterapia?» E via dicendo…”
Il confine tra incertezza e ignoranza è tanto labile quanto spesso ignorato. Ma i rischi maggiori potrebbero essere proprio nella tendenza a rimuovere l’esistenza di aree grigie della conoscenza: “Anche se i medici sono intimamente consapevoli dei vasti ambiti di incertezza che caratterizzano il loro agire – scrive Coen nel suo libro – la cultura medica manifesta una sorta di profondo fastidio ad occuparsene. Una nozione fondamentale dell’insegnamento e della ricerca in medicina è che si debba sempre arrivare a unificare una costellazione di segni, sintomi e test di laboratorio in una, e possibilmente una sola, diagnosi. Come conseguenza, la medicina tende ad avere una visione della malattia in bianco e nero e manifesta scarso interesse per le tante aree grigie che caratterizzano la pratica clinica quotidiana.”
Ogni settimana che passa, la comfort zone del medico al quale raccontiamo i nostri disturbi diventerà meno sicura. E se fosse proprio il medico attraversato da dubbi quello sul quale riporre la nostra fiducia?
Questo post è il secondo di una serie dedicata all’aggiornamento del medico. La prima uscita puoi leggerla qui: Chi ci cura è aggiornato?